(di Andrea Bisicchia) – La festa della Passione di Cristo è forse tra le più importante delle altre feste sacramentali, sia per la sua drammaticità che per la potenza della sua rappresentazione. Il teatro medievale nacque con essa nelle forme del Dramma sacro e della Sacra Rappresentazione. Nello stesso tempo, divenne l’argomento princeps della pittura, che l’affrontò ricorrendo all’uso della simbologia e, successivamente, a quello realistico in cui eccelse Masaccio, autore della “Crocifissione” che si trova al museo di Capodimonte, giustamente ritenuta l’antesignana delle Crocifissioni successive che, ciascuna a suo modo, ha dato lettura di quell’evento, ritenuto storico, a cui si è ispirata molta musica sacra.
Il dialogo tra Riccardo Muti e Massimo Cacciari parte dal quadro del Masaccio per arrivare a “Le sette parole di Cristo”, titolo del volume pubblicato dalla casa editrice il Mulino, che, a mio avviso, dovrebbe essere adottato in tutte le scuole per meglio capire in che cosa consista il metodo multidisciplinare e in che modo un’opera d’arte possa essere strumento di analisi, capace di coinvolgere la pittura, la filosofia, la musica.
Il quadro del Masaccio, noto anche per la testa di Cristo senza collo, raffigura il dolore per un figlio ingiustamente crocifisso, ben evidenziato dalla disperazione della madre, ma anche dalla serenità di Giovanni e dalla compostezza della Maddalena, avvolta in un manto rosso, colore della passione. L’immagine raffigurata dal Masaccio ha una tale forza rappresentativa e un tale valore universale, da essere considerata un’icona e, in quanto tale, può essere oggetto di molteplici interpretazioni, ciò accade quando l’opera da esaminare contiene una forza di pensiero difficile da penetrare interamente.
Lo stesso avviene anche in teatro, quando si affida al regista il compito di indagare il contenuto di un testo che, però, sia anche un’opera d’arte e, pertanto, non sempre accessibile nella sua profondità. Anche la “Crocifissione” del Masaccio, grazie alla sua sintassi compositiva, si adatta a una simile esegesi, grazie a due maestri che, attraverso un dialogo, interpretano l’immagine del Masaccio e la drammaticità del racconto che mette in evidenza il valore ontologico del dolore, oltre che per la interpretazione musicale che ne dà Riccardo Muti, grazie alla musica di Haydn.
Il dolore si può esprimere attraverso il colore o attraverso la musica, c’è infatti chi sostiene che il colore lo si possa ascoltare, come il silenzio, Eduardo docet. Interpretare significa, per Cacciari, scoprire il suono, sia della parola che del colore, tanto che la “Crocifissione” riesce a conferire al silenzio una ispirazione mistica, un modo di trasfigurare il dramma in elemento musicale e di trasformare il mistero della Croce nel mistero della fede.
Il volume contiene l’analisi musicale di “Le sette parole di Cristo” di Haydn, tratte dai Vangeli di Luca e Giovanni, da “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” a “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito”. Le parole cedono, successivamente, il posto alla musica che, dal maestoso iniziale, attraverso sette stazioni, arriva al vertiginoso “Terremoto” in Do minore (nota alquanto dolente), dove raggiunge vette sublimi, grazie anche a un linguaggio strumentale che riesce a penetrare, nel profondo, il dramma di una umanità intera. Muti spiega, da par suo, in che modo l’opera si sia ispirata alle sette frasi pronunziate da Cristo prima di morire. Mancano le parole riferite da Matteo riguardanti il “Terremoto”, in assenza della Resurrezione.
Consiglierei, prima di leggere il libro, di ascoltare la composizione di Haydn, capace di introdurci in una atmosfera tragica e di condurci allo sconvolgimento finale, dove si rivela il vero potere della musica.
Riccardo Muti, Massimo Cacciari: “Le sette parole di Cristo” – Il Mulino 2020 – pp. 132 – € 12.