(di Patrizia Pedrazzini) La Ciotat, cittadina portuale nel sud della Francia, a metà strada fra Marsiglia e Tolone. Un tempo, e fino agli anni Settanta, sede di grandi cantieri navali. Oggi, assolato e sonnolento centro costiero in piena crisi economica, nel quale i gloriosi vari di navi da carico del passato, dei quali ancora si favoleggia, hanno lasciato il posto alla manutenzione degli yacht. Qui, nei mesi estivi, arriva Olivia, una scrittrice piuttosto nota, a organizzare un workshop nel quale un gruppo selezionato di giovani del posto è chiamato a lavorare alla stesura del soggetto di un romanzo thriller. Un processo creativo fatto di scambi di opinione, riflessioni, apporti personali, scontri anche ideologici, che cerca di agganciarsi ai trascorsi industriali della città.
Dieci anni dopo la Palma d’Oro a Cannes per “La Classe”, sull’esperienza di un insegnante alle prese con le logiche e le dinamiche di una difficile classe di scuola media superiore, Laurent Cantet torna, con “L’Atelier”, a raccontare i conflitti generazionali. Solo che questa volta i protagonisti sono i giovani di oggi, alle prese con i problemi di una società violenta e lacerata, fatta di instabilità economica, assenza di identità personale e culturale, terrorismo, razzismo. I giovani francesi del dopo Bataclan.
Fra questi, nel workshop di Olivia, c’è Antoine, il più intelligente del gruppo, il meno allineato, quello indubbiamente con maggiore talento. Ma anche il più introverso, solitario, arrabbiato e litigioso, soprattutto con i compagni musulmani. Che frequenta una compagnia di destra, che maneggia armi. Chiaro che la borghese Olivia ne sia, prima incuriosita, poi quasi attratta. Mentre lui ne snobba e ne smonta sistematicamente le convinzioni, a partire dal presunto attaccamento, o quanto meno interesse, per le proprie radici e la propria storia. Ad Antoine, e in misura meno forte anche agli altri ragazzi, il passato della città non appartiene, non hanno alcuna intenzione di farsene carico. È altrove che preferiscono guardare. Se solo sapessero dove.
Ma a Olivia non basta. Va a indagare sul profilo Facebook del giovane, lo incontra a casa, vuole sapere, capire. Finché a un certo punto la situazione sembra sfuggire di mano a entrambi, verso un esito drammatico. Ma anche verso un finale inatteso, perché, alla fin fine, rimane un solo modo, all’uomo, per trovare (e ritrovare) se stesso. Quello di sempre: partire. Fare la propria piccola grande rivoluzione. E ricominciare.
Interpretato in massima parte da giovani esordienti selezionati attraverso cast aperti nelle palestre, nei bar, nei teatri, nelle scuole, il film di Cantet centra indubbiamente l’obiettivo dichiarato del regista: testimoniare la trasformazione radicale di una società che non solo, per motivi prima di tutto politici ed economici, ha perso la propria identità, ma che non ha più nemmeno alcun rapporto con un mondo, quello passato, che è solo nella memoria delle vecchie generazioni. Scavando ulteriormente il solco già di per sé esistente fra genitori e figli (e non è un caso che il film si apra con lo spezzone di un videogioco d’azione fantasy).
Peccato solo che la storia, peraltro minima, venga sviluppata con grande, spesso eccessiva, lentezza. Quasi ogni sguardo, frase, gesto, dai tuffi solitari di Antoine nelle acque delle calanques alla pistola puntata verso il cielo in una notte di luna piena, dovesse cristallizzarsi in una sorta di messaggio didascalico. Interessante, ma quando alla fine la realtà riprende il sopravvento, è come se si tornasse a respirare.
La confusa ricerca di un’identità dei giovani francesi del dopo Bataclan. Senza passato, senza radici, senza storia
5 Giugno 2018 by