La debolezza del teatro e la debolezza del pensiero. E, nel ricordo delle grandi stagioni, tutto diventa parassitario

MILANO, lunedì 13 settembre
(di Andrea Bisicchia)

Sta per partire la nuova stagione teatrale. Ci sembra giusto riflettere sul valore trascendentale del teatro e sulla necessità di fare i conti col proprio presente, sempre più caratterizzato da incertezze e da paure che lo fanno vivere nell’immanenza e lo fanno navigare nel quotidiano, senza alcuna prospettiva, se non quella di esaurirsi nel momento in cui lo si fa. Fonte primaria, questa, della sua debolezza, dovuta, proprio, alla mancanza di un progetto autentico che possa durare o produrre una evidente appartenenza, una differenziazione nel modo di concepire una Stagione. Ormai, tutti i teatri sembrano eguali, dato che i loro cartelloni non sono altro che un elenco di titoli e di attori più o meno noti.
Non esiste più un pensiero autentico, né un momento di consapevolezza di quello che è stato un “principio”, quando si pensava con le proprie idee e con la volontà di “costruire”.
È chiaro che, per tutte le discipline, esistono dei momenti aurei, come quelli degli “inizi”, appunto, che, per quanto riguarda il teatro, coincidono con la grande stagione del Piccolo e dei protagonisti di quel ventennio esaltante che dimostrò il valore trascendentale del teatro, oltre che il suo “pensiero forte”. È diventato difficile, successivamente, non lasciarsi contaminare da quanto è stato pensato da altri, tanto che, quel momento magico, è stato vissuto in maniera parassitaria, magari decostruendo quello che era stato costruito, rendendo debole lo stesso concetto di” teatro teatrale” per lasciare spazio a quello performativo, col risultato evidente che il pensiero autentico viene messo in crisi da un pensiero parassitario e, pertanto, debole, che ammicca ai maestri, senza, però, la possibilità di diventarlo.
Ci si chiede, allora, quale possa essere il futuro del teatro, dato che non ci sono maestri e non c’è più neanche l’Avanguardia, intesa come momento di eversione, di agitazione sociale e politica, essendo, anch’essa, divenuta una forma parassitaria, contribuendo a dimostrare, sempre più, la debolezza del teatro, confermata, inoltre, dalla convinzione che il teatro non debba coinvolgere con le idee, ma con l’attrazione formale del prodotto che deve essere bello, magari nella sua superficialità e, possibilmente, capace di riuscire a stupire con i ritrovati della tecnologia. Un teatro che non sia in grado di trasmettere allegorie, che non sappia profetizzare, è destinato al declino, perché inabile nell’attraversare la vita, nel rappresentarne le emozioni, i pensieri, le violenze, le malattie, il dolore, le solitudini. Tutto è diventato narrazione, tutto viene delegato al corpo, solo che il corpo del teatro è stanco e sempre più debole, è diventato vecchio, benché la vecchiaia non sia da intendere come preludio alla fine, ma come un preludio alla ripartenza, parola abusatissima da tutti i teatranti che hanno vissuto l’esperienza del Covid in maniera passiva, fino a lasciarsene contagiare e ad essere, anche loro, sempre più deboli. Forse, per tornare in salute, il teatro ha bisogno di abbandonare la logica quantitativa, per cui si rappresenta di tutto e di più, di cui, però, non rimane nessuna traccia.
In verità, nei periodi di crisi, si fa molto teatro, lo si fa perché è semplicemente diventato un lavoro e, quindi, per spirito di sopravvivenza, non importa per chi lo si fa. In questa maniera, chi lo fa, si sottrae all’interpretazione, dimostrando di non avere bisogno né del critico né dello storico che possa consigliarlo, solo che l’esplosione di questo momento finirà per implodere in poco tempo. Non rimane che la prospettiva di un teatro che sappia rivendicare la funzione interpretativa, ovvero che sia consapevole di essere fatto per gli altri e che sappia scoprire il senso della responsabilità per abbattere la debolezza del pensiero.