La diseducazione di Cam. Un film leggero, ironico e pacato contro i centri di conversione dove si “cura” l’omosessualità

(di Patrizia Pedrazzini) Vanno sotto il nome di “terapie riparative”, o meglio ancora “terapie di conversione”, e sono presunte cure finalizzate a trasformare le persone omosessuali in eterosessuali, riparandone, o appunto convertendone, l’orientamento. Ascrivibili in massima parte allo psicologo clinico statunitense (morto lo scorso anno) Joseph Nicolosi, osteggiate dalla stessa Associazione Mondiale di Psichiatria, sono tuttavia ancora tacitamente ammesse, soprattutto negli Stati Uniti, dove per esempio solo in cinque Stati (California, Illinois, Vermont, Oregon e New Jersey) è fatto divieto di sottoporvi gli adolescenti.
Proprio quello che invece accade alla sedicenne Cam, la protagonista di “La diseducazione di Cameron Post”, che la regista newyorkese di origini iraniane Desiree Akhavan ha tratto dall’omonimo romanzo di Emily M. Danforth.
Siano agli inizi degli anni Novanta, in una cittadina del Montana. Orfana (i genitori sono morti in un incidente stradale) e cresciuta da una zia decisamente bigotta, durante il ballo di fine anno la giovane viene sorpresa dal fidanzato a fare sesso in auto con un’amica. Immediato il suo trasferimento al “God’s Promise”, un centro religioso specializzato nella conversione sessuale e nella guarigione dall’omosessualità. La comunità, nella quale Cam farà conoscenza con una varia umanità di adolescenti, è gestita dalla dottoressa Marsh e dal fratello di lei, il reverendo Rick, a sua volta ex omosessuale definitivamente guarito grazie alla parola di Dio.
Potrebbe essere un dramma a tinte cupe, ma non è così. Nonostante il tema e l’ambientazione, il film non sfora mai nel tragico. Anzi, si mantiene per tutti i 90 minuti entro i quali si dipana, all’insegna della leggerezza se non, in alcuni momenti, dell’ironia. Cameron non è una sciocca, è una ragazza intelligente, che capisce se stessa e cerca di capire il mondo intorno, con spirito critico ma anche tollerante. La stessa responsabile del centro non è la classica direttrice sadica offuscata dal retaggio di problematiche personali mai risolte, ma una donna che non alza mai i toni. E la comunità non alberga in un edificio tetro e severo chiuso al mondo da grandi vetrate, bensì in un campo immerso in splendidi boschi, lontano dalle tensioni metropolitane. Ma nemmeno tutto questo è come sembra. Il clima ovattato, talvolta quasi di abbandono, i toni bassi, si rivelano presto, da un lato un modo gentile e delicato per entrare nelle problematiche di un’età, l’adolescenza, già di per sé gravata da pesi e tensioni non facili da sostenere, dall’altro un sistema efficace per far emergere il potere subdolo e manipolatore, ma proprio per questo fortissimo (e pericoloso), di certe strategie di rieducazione. Ovvero, come mettere alla berlina, in modo pacato e intelligente, un’intolleranza becera. Una scelta registica attenta e mirata, che tuttavia finisce col togliere pathos all’intera vicenda e alle figure dei suoi protagonisti, che alla fine emergono più come vittime passive che come ribelli, faticando a coinvolgere e a indignare veramente lo spettatore.
Incisive le interpretazioni della diciannovenne Chloë Grace Moretz (“Amityville Horror”, “Hugo Cabret”, “Sils Maria”, “Suspiria”) nei panni di Cam, e di Jennifer Ehle (“Il discorso del re”, “Le idi di marzo”, “A Quiet Passion”) in quelli dell’inquietante dottoressa Marsh. Il film ha vinto il Gran Premio della Giuria al Sundance Festival di quest’anno.

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