La dolente solitudine di Truman Capote tra feste luccicanti e torbida ferocia. E lo chiamavano il “sogno americano”

MILANO, mercoledì 8 febbraio (di Emanuela Dini) È tormentato e sofferto, esibizionista e osceno, malinconico e bipolare, intimo e mondano, lucido e crudele, vittima e carnefice, il Truman Capote di “Questa cosa chiamata amore” di Massimo Sgorbani messo in scena al Franco Parenti, regia di Emanuele Gamba e interpretato in un monologo di un’ora e mezza senza intervallo e senza un attimo di sosta da un Gianluca Ferrato in stato di grazia.
Di Truman Capote viene raccontato tutto, e di più, in una serie di quadri-sequenza, ognuno un capitolo della sua storia, che si intreccia con quella del “sogno americano” degli anni ’50 e ’60. E allora ecco che si mischiano gli assassinii dei fratelli Kennedy e le feste della meglio mondanità di New York, la guerra del Vietnam e i film di James Bond in un’America contraddittoria tra feste luccicanti e torbida ferocia.
Gianluca Ferrato dà vita, corpo e voce a un Truman dalla solitudine inconsolabile, e ne narra con rigore biografico e grande creatività scenica le varie tappe, con tocchi di verismo a volte crudeli e dal sapore documentario.
Brandelli di vita e di ricordi, in ordine sparso. La rivendicazione di un’omosessualità che negli anni ’60 suonava ancora scandalosa.
Ma c’era davvero bisogno di un quarto d’ora di declamazione volgarotta sulle virtù del sesso orale? Unica nota stonata di uno spettacolo altrimenti elegante e rigoroso.
La dolente consapevolezza di un profondo vuoto affettivo, condiviso con l’immaginaria interlocutrice Marilyn Monroe. La struggente empatia dell’incontro con Perry, uno dei due assassini di “A sangue freddo”, il libro-capolavoro di Capote, a parer nostro il quadro più intenso di tutto lo spettacolo. La luccicante e mitica festa mascherata all’hotel Plaza di New York, malinconica nella sua falsa allegria di balli e coriandoli. La madre alcolizzata, il padre assente, l’aspetto fisico infelice, la vocetta stridula e acuta, il bel mondo di New York che prima lo vezzeggia «sono il vostro barboncino» e poi lo abbandona.
Tutta una vita di successi, eccessi e abbandoni in una scena essenziale – un tavolo, due sedie, tre lampade – e sapienti giochi di luce che mantengono tutto lo spettacolo in una suggestiva dimensione di bianco e nero.
Sala gremita, applausi calorosi e convinti.

“Questa cosa chiamata amore”, di Massimo Sgorbani, con Gianluca Ferrato, impianti e regia di Emanuele Gamba, costumi di Elena Bianchini – Produzione Fondazione Teatro della Toscana – Al Teatro Franco Parenti, Via Pier Lombardo 14, Milano. Repliche fino a domenica 12 febbraio.