La famiglia dolcemente anarchica di Kore’eda. Ovvero l’amaro ritratto di una società umile e dei suoi affetti nascosti

(di Patrizia Pedrazzini) La famiglia non si sceglie. Ce la si ritrova, ci si cresce dentro, la si ama (o la si odia). O no. Forse è tutto il contrario. La famiglia, potendo, si sceglie. La si costruisce giorno dopo giorno Si decide liberamente di farne parte. Natura contro legge e, all’interno di quest’ultima, legge morale contro legge sociale. Che poi, alla fine, va a sfociare nell’eterna contrapposizione fra buoni e cattivi. Questa la, tutt’altro che inedita e originale, chiave di lettura di “Un affare di famiglia”, il film del giapponese Hirokazu Kore’eda vincitore della Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes.
La storia è quella di un’umile, e povera, comunità di persone – a prima vista una famiglia – che fatica a sbarcare il lunario, nonostante si aiuti con ripetuti furtarelli in negozi e supermercati. Ci sono una “nonna” che mantiene un po’ tutti con la propria pensione, una coppia formata da un operaio edile e da una donna che lavora in una lavanderia, una ragazza che tira avanti col porno, un ragazzino che non si capisce bene di chi sia figlio. A un certo punto, imbattutosi una sera in una bambina evidentemente maltrattata dai genitori, l’operaio decide di prenderla e di portarla con sé a casa, dove l’intera “famiglia” la adotta, con generosità e amore. Ma non funziona così: i bambini non si portano via, seppur con ottime intenzioni, e quello che appare (e magari anche è) eticamente giusto può rivelarsi legalmente (e magari anche moralmente) sbagliato. La legge non si può ignorare. E, quanto ai componenti della “famiglia”, chi sono realmente, da quali storie vengono, come e perché sono finiti a vivere insieme?
Un tema, quello del libero arbitrio parentale, non nuovo, si diceva, per il regista nipponico, che già lo ha sviluppato almeno in “Father and Son” (nel quale due famiglie molto diverse fra loro vengono a sapere di aver cresciuto per sei anni ognuna un figlio non proprio, frutto di un iniziale scambio di neonati) e in “Little Sister” (dove tre sorelle, in occasione dei funerali del padre, scoprono di avere una sorellastra adolescente che ben accetta di andare a vivere con loro). Mentre il taglio soggettivo che accompagna l’intera vicenda e le figure dei suoi protagonisti, nessuno dei quali, alla fin fine, è quello che sembrava all’inizio (e comunque molto dipende anche dall’ottica nella quale lo si osserva), è in qualche modo debitore del relativismo di Akira Kurosawa.
Temi cari al cinema giapponese, dunque, tuttavia qui sviluppati con rispetto e grande delicatezza, per cui una vicenda di per sé drammatica (il finale non fa sconti, la legge è la legge) si trasforma, nelle mani di Kore’eda, in una storia dolcemente anarchica, che racconta di anime semplici e buone, che magari, certo, vivono ai confini della legalità e di fatto “rapiscono” una bambina non loro, ma chi sono i veri “cattivi”: loro, che le vogliono bene e la proteggono (anche se le insegnano a rubare), o i veri genitori, che la picchiano e la trascurano?
Così il film (che solo accusa qualche lungaggine di troppo nella seconda parte) si trasforma nello spaccato, non solo delle comuni dinamiche familiari, ma di un’intera società, a partire dall’ipocrisia che la governa, e alla quale gli umili possono solo piegarsi. Gli umili che poi, con la loro vita fatta di lavori pesanti quando non decisamente umilianti, i loro pasti sempre uguali tuttavia sempre consumati insieme, la generosità di chi, pur avendo poco o niente, non esita tuttavia a dividere quel poco con altri diseredati, costituiscono l’anima del nuovo proletariato urbano. Quello che nessuno vede e che non ha voce, e non solo in Giappone.
Pessimista, amaro e disperato. Ma con garbo.