(di Andrea Bisicchia) Studiando la storia del pensiero greco-romano, Pierre Hadot, nel suo volume Esercizi spirituali e filosofia antica (Einaudi), sceglie non tanto un’argomentazione di tipo classicistico, quanto un approccio pedagogico, sostenendo che le pratiche filosofiche, che vanno dal periodo ellenistico a quello di Marco Aurelio, avessero, come fine, la formazione dell’individuo, fondata su veri e propri esercizi spirituali, da non intendere, però, in senso religioso, né tantomeno teologico, quanto laico.
Egli parte da una premessa, secondo la quale non può esserci conoscenza senza una metodologia fondata sull’esercitazione, senza, cioè, la ricerca di un apprendimento attraverso gli esercizi che, di ogni forma essi siano, richiedono delle pratiche precise, delle regole che vanno rispettate, che sono da intendere spirituali perché impegnano la mente. La filosofia, pertanto, va concepita come metodo che facilita il progresso spirituale che appartiene al pensiero, il solo che permetta di pervenire a uno stato di sapienza. In questo senso, la filosofia antica si differenzia da quella moderna, essendo quest’ultima molto tecnicizzata e, quindi, meno attenta ai problemi interiori dell’individuo.
Mi viene in mente lo studio di Werner Jaeger: “Paideia. La formazione dell’uomo greco”, stampato in 1500 esemplari, di cui posseggo la 284ma copia (La Nuova Italia, 1936), in cui lo studioso tedesco si poneva il problema della funzione educativa della filosofia antica e del posto che i Greci occupassero nella storia dell’umanità. Hadot ne continua la ricerca, estendendola al pensiero romano e a quello dei Padri della Chiesa, fino a confermare l’ipotesi, sostenuta da altri studiosi, secondo la quale, la mistica cristiana non sia altro che il prolungamento di quella neoplatonica, durante il quale i dogmi filosofici sono stati sostituiti dai Comandamenti.
Per Hadot, l’atto filosofico non si insinua soltanto nell’ambito della conoscenza, bensì in quello dell’Essere, è necessario, quindi, evitare la concettualità e la metafisica, per puntare verso noi stessi e capire come formarci. In questo senso, la filosofia si assume il compito di essere una vera e propria terapia nei confronti dell’uomo, con la quale sconfiggere l’angoscia e offrirgli una maniera di vivere, ricorrendo, magari, alla drammaturgia, quella di Eschilo, Sofocle, Euripide, le cui tragedie avevano proprio questo scopo. Soltanto in questo modo si poteva “formare” l’uomo greco e preservarlo dai mali del mondo.
L’autore ricorda il pullulare di scuole e di movimenti, durante il periodo ellenistico, quelle di Platone, Aristotele, Teofrasto, Zenone, Crisippo e di movimenti come lo Scetticismo, il Cinismo, nei quali intravede la conferma di come le loro dottrine fossero messe al servizio della comunità, attraverso il metodo della meditazione, proprio come accadrà per gli “Esercizi Spirituali” (1540) di Ignazio di Loyola, le cui regole non erano altro che un manuale pratico di identificazione interiore, ovvero un percorso alla scoperta di sé, proprio come accadeva per le regole dell’epicureismo e dello stoicismo, di cui Seneca e Marco Aurelio furono, nell’ambito romano, i continuatori, mentre, nell’ambito patristico, lo furono Agostino, Bonaventura, Bernardo di Chiaravalle, tutti impegnati alla ricerca del proprio mondo interiore, della tranquillità dell’anima, di una attenzione costante al presente, del “compiacimento di ciò che accade”, come scrive Marco Aurelio nei “Pensieri”. Questa ricerca dell’autenticità, nei Padri della Chiesa, è possibile trovarla se la si colloca in relazione con Dio, attraverso la quale si può raggiungere la libertà interiore, che coincide con il valore dell’esistenza, proprio per questo, in quegli anni, la filosofia era diventata ancilla theologiae.
Pierre Hadot, “Esercizi spirituali e filosofia antica” – Einaudi 2005 – pp 198 – € 18.