(di Paolo A. Paganini) Il male assoluto, senza perdono o redenzione, il gusto del macabro, l’orrore truculento, l’irruenta passione devastatrice, l’incontrollata sete di vendetta, la truce dissoluzione della morale, dei sentimenti, del bene comune: da tutto ciò rifuggiva Seneca (4 a.C. – 65 d. C.), filosofo, scrittore latino, moralista e precettore di Nerone (ah, come mal ripose il suo pensiero pedagogico). Per Seneca, per il saggio stoico, solo il dominio delle passioni, la ricerca della virtù, la vittoria sugli istinti, l’autosufficienza spirituale, come condizione necessaria per l’affermazione di una sapiente ed equilibrata individualità, che sarebbe dovuta poi sfociare e trionfare sulla dimensione politica, furono la base del pensiero e delle opere filosofiche. Per quanto riguarda le sue tragedie (nove, forse dieci, forse di più) s’impone una considerazione critica ch’è tutto il contrario della sua ispirazione al bello, al buono, al giusto. Eppure, anche qui c’è un preciso disegno morale, una irrefrenabile volontà pedagogica. Per dimostrare come l’istinto senza virtù, le passioni senza controllo conducano irrimediabilmente al male assoluto, alla devastazione dei sentimenti, all’orrore di una morte violenta, alla violazione d’ogni legge umana e divina, ecco “Medea”.
Ispirata a Euripide, ne conserva fedelmente l’impronta, ma ne modifica i punti di vista. Per la Medea di Seneca non esiste nessuna forma di pietas, non c’è luce, è solo un precipizio nel buio degli inferi, nelle oscure voragini delle anime, e da tutti viene condannata, tutti le sono contro. Ne rammentiamo brevemente la vicenda. Giasone, per sposare Creusa, la giovane figlia di Creonte, re di Corinto, ha abbandonato la vecchia moglie, la maga Medea, madre di due ancor piccoli figli. Già vinta dalla passione per Giasone, l’aveva aiutato a conquistare il vello d’oro, dopo aver tradito il padre e ucciso e fatto a pezzi il fratello Absirto. Insieme fuggono dalla Colchide. E ora Giasone la ricambia sposando Creusa! L’amore di Medea diventa incontenibile odio, follia irrefrenabile, furia del male, delirio visionario, traboccante, fatale. Invia vesti intrise di veleno a Creusa e al re, che le indossano e muoiono bruciati; e, all’apice della vendetta e di una incontrollata perversione, uccide i suoi stessi figli.
Orbene, in questa mess’in scena al Piccolo Teatro Grassi, la storica sede milanese di Via Rovello (un’ora e mezzo senza intervallo), immaginate Maria Paiato, già affascinate protagonista di donne “estreme”, qui nel ruolo di Medea. Per quanto si riferisce al panorama contemporaneo forse nessun’altra interprete, oggi, ha la forza, il dominio totale della scena, la furia drammatica della Paiato, anche se talvolta la foga della passione fa sì che le parole, strozzate dall’urgenza della sintassi senecana, risultino di non sempre chiara intelligibilità. Poco male. Il contorno attoriale, distribuito fra Coro e gli altri ruoli, ha una sua dignitosa presenza. Almeno nomineremo i compagni di scena della protagonista: Max Malatesta, Orlando Cinque, Giulia Galiani, Diego Sepe. Nella giusta penombra della scena (di Francesco Ghisu), il regista Pierpaolo Sepe ha massimamente focalizzato l’attenzione sulla follia di Medea, sulla sua evoluzione drammatica, sulle esaltazioni, sulle ombre, sugli infingimenti di questa donna maledetta, che corre qua e là come una bestia feroce e porta in faccia i segni del delirio… Qualche leggero eccesso registico va compreso e perdonato. Il cappello da cow boy di Creonte forse non va perdonato. Il segno della croce della fanciulla-coro forse va solo compreso (se è vero che sarebbero intercorse delle lettere fra Seneca e San Paolo, ma da parte di Sepe è un tocco “cristiano” di gratuito intellettualismo).
La follia sanguinaria di Medea: ecco come ci riducono le passioni, parola di Seneca
18 Ottobre 2013 by
Si replica fino a domenica 3 novembre.