La giustizia divina sta quasi per colpire l’ipocrita affarista dei “Pilastri” di Ibsen. Ma alla fine fa cilecca

Milano. Gabriele Lavia e Giorgia Salari in una scena di “I pilastri della società” di Ibsen, in scena al Piccolo Teatro Strehler (foto di Tommaso Le Pera)

Milano. Gabriele Lavia e Giorgia Salari in una scena di “I pilastri della società” di Ibsen, in scena al Piccolo Teatro Strehler (foto di Tommaso Le Pera)

(di Paolo A. Paganini) Le apparenze e la menzogna sono le fondamenta della civiltà e del progresso? Oppure bisogna innalzare monumenti e stendardi alla verità e alla libertà? Inutile girarci intorno. Da Caino e Abele fino a Machiavelli, dal misticismo dell’amore francescano fino al cinismo delle ragioni di stato, la nostra catechesiale formazione ci ha insegnato che non si transige sui doveri e sui valori morali. Bisogna sempre perseguire la retta strada della giustizia e della verità. Eppure, è l’eterno scontro tra teoria e pratica, tra bene e male, tra sentimento e ragione. Senza questa dicotomia non esisterebbero né idealismo né sentimento poetico o religioso. Non esisterebbe neanche tanto teatro. Shakespeare? Mah. Pirandello? Una questione di gioco delle parti. D’Annunzio? Forse che sì forse che no. Si salverebbero probabilmente solo il teatro comico, che non prende mai niente sul serio, e il teatro dell’assurdo, che continua ad aspettare Godot.
Senz’altro non esisterebbe Ibsen, con i suoi fervori moralistici, con i suoi slanci poetici, con la sua vindice passione provocatrice verso il cupo perbenismo norvegese, e sempre così in sospeso tra Lutero e Kierkegaard, tra simbolismo e Nietzsche, fra consolatoria speranza d’un mondo migliore e tormentata consapevolezza della tragedia del vivere umano. Anche perché, in fondo, Ibsen aveva un alto senso sociale e religioso. Non dimentichiamo che c’è un abisso fra i quasi contemporanei Ibsen e Strindberg. Ibsen, oggi diremmo, è un buonista. Gli piange il cuore far finire un dramma in tragedia. I colpi di pistola, appena può, preferisce farli sentire piuttosto che farli vedere. E magari concludere il dramma nell’eterno bacio d’amore.
Anche questo immenso e indimenticabile dramma, “I pilastri della società” (1877), con protagonista e regista Gabriele Lavia, quasi quattro ore con un intervallo, in scena al Teatro Strehler di Milano, dove conclude la propria trionfale stagione, non smentisce il carattere caritatevole. Il dramma avrebbe potuto concludersi con il giusto finale d’un dio vendicativo e giustizialista. Shakespeare l’avrebbe fatto. L’armatore Bernick, cinico e spregiudicato affarista, moralista perbenista, considerato universalmente un esemplare campione di virtù civili e cittadino d’integerrima moralità, amato rispettato invidiato, in realtà aveva costruito la propria fortuna sulla menzogna e sul sacrificio d’un amico che, innocente, si era addossato la responsabilità di una tragica vicenda di sesso e di soldi… L’amico però ora torna dall’America, dov’era – diceva la buona società – fuggito per sottrarsi alla vergogna e alla giustizia, e l’improvvido arrivo getta nel panico Bernick sul più bello d’una mastodontica transazione commerciale (anche questa abbastanza truffaldina). Per farla breve, l’imbarazzante amico, schifato dal marciume norvegese e dall’infame vigliaccheria di Bernick, decide di ripartire a bordo di una carcassa di nave, marcia e dallo scafo sfondato, che sta per salpare verso l’America dai cantieri del cinico armatore, che la condanna al naufragio. Bernick, ora, è quello che vuole: la scomparsa dell’amico gli sgraverà la coscienza da ogni imbarazzo di tragiche rivelazioni. Ma non sa che anche l’adorato figlio, fuggito di casa, s’è nascosto nella stiva della nave maledetta. Infine, quando è troppo tardi per fermare in porto la nave, scoprirà la terribile fatalità. Disperazione del padre. Giusta punizione per le sue malefatte, colpito al cuore nel suo affetto più caro. Ma invece tutto è bene quel che finisce bene. La nave non parte. Le vite sono salve. I cittadini in festa. E Bernick, finalmente pentito, confessa in pubblico le sue terribili menzogne e malefatte.
Facile intuire che il popolo perdonerà, in nome di uno spudorato successo, che porterà ricchezza a tutti. E che lascia insoluto il terribile quesito posto da Ibsen: è giusta la menzogna quando è a fin di bene? Son doverose le apparenze quando i propri interessi coincidono con quelli pubblici? Perbacco, dopo quasi un secolo e mezzo siamo ancora qui a chiedercelo.
Gli interpreti sono formidabili. Un po’ eccessiva la Lona americana di Federica Di Martino, ma di una potenza espressiva eccezionale. Ma tutti – una ventina di interpreti, sulla geniale e suggestiva scena di Alessandro Camera, costumi ottocenteschi di Andrea Viotti – applauditissimi: da Graziano Piazza ad Andrea Macaluso, da Michele De Maria a Giorgia Salari. Semplicemente perfetti.
E, per ultimo, per una giusta sottolineatura, un ineguagliabile Gabriele Lavia, nella parte di un armatore Bernick dalle molte anime, equivoco eppure trasparente, spregiudicato eppure ingenuo, riflessivo eppure d’incontenibile iracondia, ipocrita fino alla spudoratezza eppure fanciullescamente entusiasta della vita, abile manipolatore di uomini eppure fanaticamente convinto di essere uno dei “pilastri della società”. Eh sì, nella Storia sono tanti gli uomini importanti convinti di essere unti dal signore…
“I pilastri della società” di Henrik Ibsen. Con Gabriele Lavia, anche regia. Al Piccolo Teatro Strehler, Largo Greppi, Milano – Repliche fino a domenica 6 aprile.