La Grande Guerra di Mendes. Topi, trincee, virtuosismi tecnici. E una missione suicida. Senza un attimo di respiro

(di Patrizia Pedrazzini) Prima guerra mondiale, fronte franco-tedesco, trincee inglesi. È il 6 aprile del 1917, e due giovani caporali britannici si stanno riposando all’ombra di un faggio. Si chiamano Tom Blake e William Schofield, e sono amici. Desiderano solo rilassarsi un poco, magari accarezzando il sogno di un breve permesso che consenta loro almeno di rivedere le famiglie, ma un ordine improvviso interrompe il momento di pace: dovranno attraversare le linee nemiche e consegnare un messaggio dal quale dipende la vita di 1.600 uomini sul punto di attaccare l’esercito tedesco, che si è apparentemente ritirato. In realtà si tratta di una trappola ben architettata, e in più fra i soldati che rischiano di essere mandati al massacro c’è anche il fratello di Tom (e non è, questa, la sola analogia con “Salvate il soldato Ryan”).
Una missione suicida, come tante in quel conflitto. Così i due partono, e “1917”, ultimo film del cinquantaquattrenne regista inglese Sam Mendes (“American Beauty”, “Era mio padre”, “Skyfall”) è la storia della loro impresa. O meglio della loro corsa nella “terra di nessuno”, su e giù per trincee e crateri aperti dai colpi dei mortai, fra fango impastato a sangue, corpi in decomposizione mangiati dai topi, braccia, gambe, carcasse di cavalli putrefatti. E poi, al di là dei cunicoli, cascinali distrutti, paesi in fiamme, alberi spezzati, animali ammazzati. Sotto un cielo freddo e senza sole.
Fin qui, un film di guerra, anzi sulla Grande Guerra e sul suo particolare orrore: l’immane conflitto raccontato attraverso le paure, le ingenuità, gli errori, ma anche il coraggio e la determinazione di due soldatini qualunque che la Storia non ricorderà, militi ignoti fra tanti, piccoli eroi smarriti che chissà, forse, se saranno fortunati, un giorno potranno tornare a casa con una medaglia. Tuttavia, per quanto ineccepibile, non è questo il lato migliore di “1917”. La cui forza, perché di forza effettivamente si tratta, più che sulla trama (al limite del disarmante) e sulla dignitosa (ma niente di più) interpretazione di tutti, protagonisti e non, si regge su motivazioni decisamente più “tecniche”. L’incisiva, e variata, colonna sonora di Thomas Newman, capace di passare dal dramma alla poesia, dalla commozione (la tenera canzone che i soldati intonano in coro nel bosco) alla rabbia all’eroismo; l’eccezionale fotografia di Roger Deakins (Oscar per “Blade Runner 2049”, più altre 14 nominations), per la quale valga su tutte la scena della piccola città distrutta su cui scendono i chiaroscuri della notte, illuminati dai bagliori lontani delle esplosioni e degli incendi (come in un quadro di Hieronymus Bosch); ma soprattutto la tecnica del piano sequenza, ovvero la scelta di Mendes di girare l’intero film senza (o quasi) tagli né raccordi apparenti, attraverso una sola inquadratura, praticamente con la macchina da presa perennemente incollata ai personaggi.
Una raffinatezza tecnica non nuova, che già è valsa, nel 2015, il Premio Oscar ad Alejandro Iñarritu per “Birdman” e che ancora prima Alfred Hitchcock, nel ’48, aveva utilizzato per “Nodo alla gola” (solo che la tecnologia del tempo non consentiva di girare un solo, lungo piano sequenza, per cui il regista fu costretto a realizzarne dieci). In “1917” il ricorso all’inquadratura unica fa sì che lo spettatore, non solo non perda mai di vista i protagonisti del film, ma anche segua, e condivida, le loro vicissitudini come se ne fosse al fianco, vivendone ogni incertezza e ogni affanno. Senza un attimo di respiro, in tempo reale, e in una sorta di immersione totale, e viscerale, di grande eleganza formale e insieme di altissima tensione, al limite, in alcune scene, del thriller.
Una prodezza stilistica perfettamente riuscita e che, come previsto, fa la differenza. Nel senso che “1917” è un film esteticamente perfetto. Come “Dunkirk”, al quale è impossibile non fare riferimento: tecnica ineccepibile, fotografia strepitosa, là i virtuosismi temporali di Nolan, qui quelli spaziali di Mendes, e in entrambi le piccole storie di piccoli uomini destinate a perdersi nel grande arazzo di una Storia del quale pure fanno, se pur minimamente, parte.
E qui, però, “1917” finisce. Senza messaggi più o meno in codice contro l’assurdità della guerra o l’ottusità dei generali (per questo c’è Kubrick con il suo “Orizzonti di gloria” o, per restare in Italia, il livido “Uomini contro” di Francesco Rosi), senza vocazioni pacifistiche. La guerra per la guerra, senza sconti e senza letture, e in più presentata molto bene.
Dean-Charles Chapman (Tommen in “Il trono di spade”) è un risoluto Tom. Decisamente migliore George MacKay (“Captain Fantastic”) nei panni del più problematico William, eroe suo malgrado. I “grandi” (Colin Firth, Benedict Cumberbatch) fanno i generali e i colonnelli: poche battute e ruoli secondari. Come Richard Madden, che dà il volto al fratello di Tom.
Dieci nomination agli Oscar. Ma la sensazione che la vicenda narrata sia niente più che un pretesto per confezionare un lavoro tecnologicamente perfetto – insomma che per questa volta il contenuto sia al servizio della forma, e non viceversa – rimane.