Domenica 20 giugno ► (di Carla Maria Casanova) – Verona afosa.Terribile. Così afosa quando è afosa. Ma sempre splendida. Come Venezia. Quella poi è anche divina. A Verona scendo al Torcolo, mini hotel de charme a un minuto da pazza Bra, mio punto di riferimento da 40 anni, quando riesco a prenotarlo in tempo. Girato l’angolo, in vicolo Listone, c’è un piccolo ristorante super. Ordino branzino grigliato che mi arriva su una tavoletta di ardesia incandescente, in piedi (il branzino) cioè non sdraiato, come se stesse nuotando. È aperto a foglia. Lo prepariamo così per poterlo spinare perfettamente, dice il maître. Io sono persino imbarazzata a rovinare una simile opera d’arte. Quasi non lo mangio. Tra il secondo e il dessert mi servono un sorbetto al limone “per cambiare la bocca” (pour la bonne bouche dicevano i nonni). Mi viene fin da piangere.
Al Torcolo, la signora Caterina, da quest’anno governante factotum, in ascensore mi implora: “Mi raccomando, parli bene dell’Arena! Dobbiamo ricominciare tutto!”
Per “parlar bene”, innanzi tutto, si deve citare la neo sovrintendente/direttore artistico Cecilia Gasdia, veronese, già soprano internazionale, la quale, trovandosi a gestire una stagione in piena pandemia, anziché trovare rifugio in un legittimo tuffo nell’Adige, si è rimboccata le maniche ed ha assemblato un cartellone magistrale. Aggiungendo la trovata, non indifferente, di assicurarsi un sostegno finanziario con il lancio promozionale delle “65 colonne” (tante ornavano l’Arena originale), 65 sponsor e amici che vogliano contribuire.
Hanno risposto in tantissimi.
Accanto a Unicredit major partner, figurano i nuovi sponsor Volkswagen, Calzedonia e Giovanni Rana. Prosaici? Forse. Ma mangiare bisogna e far capire che il ritorno per l’offerente c’è. Perché “di cultura si mangia”, come è oramai provato.
L’Arena è stata inaugurata dall’Aida di Verdi, nei 150 anni della sua nascita (Cairo 1871). È il titolo più popolare, quello con cui si è inaugurata la prima stagione lirica areniana, nel 1913. È seguita, negli anni, un’infinita serie di nuove edizioni: 60 riprese, 715 rappresentazioni. Il primo allestimento resta il più magico. Innocente. Essenziale. Recentemente, il nuovo allestimento tentato dall’avveniristico gruppo del Fura dels Baus, è l’unico della storia la cui Marcia trionfale non ebbe l’immancabile applauso a scena aperta (anche il pubblico ha una sua dignità).
Questa volta, prima volta in Arena, Aida è stata proposta in forma di concerto. Una sola replica, il 22 giugno. Le dirige Riccardo Muti, che torna in Arena dopo 41 anni, quando diresse il concerto in memoria delle vittime della strage di Bologna del 1980.
Muti con Aida ha un rapporto speciale. È la prima opera da lui, se non ascoltata, almeno sentita, all’età di 3 anni, e, in seguito la prima opera da lui diretta (Vienna 1973). Poi non particolarmente frequentata, quantunque Muti sia direttore verdiano per eccellenza. Ma c‘è quella tradizione di allestimento trionfalistico che lo disturba. In verità tolta la Marcia, di trionfale in Aida non c’è nulla, tutto basato su un conflitto di sentimenti, di onore e di amor patrio. Opera intimista? Sì (e secondo me a lieto fine: per due innamorati, morire insieme giovani e belli quando “al ciel non videro cader che gli aquiloni”, vuoi mettere?)
“Fin dall’ inizio Verdi fa capire bene le sue intenzioni, dice Muti: “I due temi, quello dei Sacerdoti e quello dell’Amore di Aida, sono esposti inizialmente in pianissimo, quasi trattenendo il respiro. E la scrittura musicale è raffinatissima, attenta alle sonorità dei singoli strumenti e al gioco cameristico.”
Forse è qui che si può trovare la spiegazione dell’improvviso cambio dei due protagonisti (Aida e Radames) cui si è aggiunta, per motivi di indisposizione a causa dello stato di gravidanza, la sostituzione della Rachvelishvili (Amneris). Muti voleva soprattutto l’interpretazione. Voleva rispettati i pianissimi di cui Aida abbonda. E così l’ha avuta. Intima. Dolente. A volte sussurrata. Esperimento coraggioso da tentare all’aperto. Comunque appassionatamente partecipata. Magari un po’ a scapito della qualità vocale di quei due interpreti. Non sempre si può avere tutto. I cantanti in causa sono Eleonora Buratto (Aida) e Azer Zada (Radames). Anna Maria Chiuri (Amneris) è stata sostituzione di forza maggiore. Di lei si è ammirata la grande forza di espressione.
Del cast originale sono rimasti inalterati Ambrogio Maestri (Amonasro, forse il migliore in assoluto: quel duetto del secondo atto, con Aida!), Michele Pertusi (Il Re, sempre inappuntabile), Riccardo Zanellato (un ottimo Ramfis), Riccardo Rados (Messagero; giovane promettente tenore cui il Maestro ha voluto dare una importante occasione di visibilità) e Benedetta Torre svettante Sacerdotessa.
Si è detto Aida senza strombazzamenti. La soluzione senza scene, l’orchestra davanti a un grande muro semicircolare con proiezioni di un deserto rosso, ha portato il vantaggio di un ascolto più compunto, evitando anche le malefatte di certi allestimenti. Ma quello che ci vuole ci vuole ed ecco, nella fatidica Marcia trionfale, pezzo forte dell’opera, un esplodere di gioia e di suoni trionfali (non trionfalistici). Un’apoteosi di giubilo. Una forza liberatoria che sprizza dal deserto, là dove imperano immote le gigantesche piramidi. Mai ascoltata una simile bellezza di suono. Orchestra e coro magistrali. E lui, Muti, che sprigionava forza da ogni poro. È stata anche l’esplosione di applausi più intensa della serata. Ci voleva, dopo un anno di astinenze.
Un’ultima nota felice. Dopo quella inaspettata forca caudina di una mascherina obbligatoria per tutti (euro 2,50) anche se siamo all’aperto e distanziati un posto sì e uno no, alla fine c’è stato il recupero degli abbracci agli artisti, dietro alle quinte, che in Arena sono comunque all’aperto, senza mascherate.
Anche questo è segno di rinascita.
La Marcia trionfale? Un’apoteosi di giubilo. E una forza liberatoria. Grazie a Muti. Mai sentita una simile bellezza
20 Giugno 2021 by