La nuova visione di due famose storie classiche rivisitate da Pino Carbone. E il “teatro vegetale” di Manuela Infante

Luca Mancini e Rita Russo in “Barbablù e Giuditta” di Pino Carbone (foto Mena Rota)

(Nostro servizio) – VENEZIA, mercoledì 31 luglio ► (di Paolo A. Paganini) Il 47mo Festival Internazionale del Teatro è in pieno svolgimento con il terzo atto della trilogia affrontata dal Direttore della Biennale Teatro, Antonio Latella. Dopo le due precedenti edizioni dedicate alla “Registe europee” e al rapporto “Attore /Performer. Ora è la volta di “Drammaturgie”: la più impegnativa, la più sfuggevole e provocatoria, per le sue implicazioni e ambiguità, di natura estetica, sociologica, politica eccetera.
Non è più una semplice distinzione aristotelica Tragedia / Commedia. Fin dai primi del Novecento, il teatro borghese iniziò la sua silenziosa rivoluzione, sfociando, via via, in più sottili e complessi temi di amori e tradimenti, di sconvolgenti tematiche sociali di sesso, di droga, di genere. È un campo minato, dove è difficile muoversi. Non è più così semplice, come diceva August Strindberg: “Penso al drammaturgo come a un predicatore laico che diffonde le idee del suo tempo in forma popolare”. Eppure, nella sua semplicità espositiva, la questione è tutta qui. Nel rapporto d’attualità teatro/società, nelle sue prismatiche sfaccettature.
Si prenda, per esempio, questi tre allestimenti, visti ora all’Arsenale, nell’ambito della 47ma Biennale.

Pino Carbone, con “Progetto Due”, si è riservato un mini-festival, per ora dedicato a “Penelope/Ulisse” e a “Barbablù/Giuditta.
“Penelope/Ulisse (2017), con Carla Broegg e Giandomenico Cupaiuolo, non è uno scontato racconto epico/storico dall’Odissea, con tanto di tele penelopesche da fare e disfare, per tener a bada gli avidi Proci, e con tanto di avventure nell’antro di Polifemo, o di amori esaltanti e disperati, come con la divina Calipso. No, vista da un’altra temeraria angolazione, è la storia di un marito che, dopo vent’anni, torna a casa, dalla moglie, con un libro che narra le sue vicende (l’Odissea, di un certo Omero). E il contesto vede un dilemma muliebre: accettare ancora quell’uomo, forse ormai sconosciuto, e soprattutto ragionando: in quei vent’anni, chi è la vittima, Ulisse o Penelope? Diventa, insomma, un’attuale storia di coppia, che coinvolge chi sa quant’altri coniugi separati, disperati e ritrovati. La coppia di attori è semplicemente entusiasmante, due prove-d’attore di coinvolgente e trascinante partecipazione, al limite della loro resistenza fisica per più di un’ora.
E, subito dopo, Luca Mancini e Rita Russo, sempre con la regia di Pino Carbone, rappresentano la fiaba-horror di Charles Perrault, “Barbablù”, pubblicata nel 1697 nella raccolta “I racconti di Mamma Oca”, dove si racconta una delle più spaventose tra le fiabe di Perrault, con quell’omone dalla barba blu, che scannava con un coltellaccio le sue mogli disubbidienti. Erano, sì, volta per volta, le padrone del castello, ma non dovevano mai entrare in quella sua stanza, la stanza dell’orrore… Poi, a metà dell’Ottocento, arriveranno anche i Fratelli Grimm e rivaleggiare in crudeltà con Perrault…
Più misterica e psicologica, la pièce (poco più di mezz’ora) mette in risalto la storia di due solitudini, quella di un uomo dalla mostruosa barba blù, scansato, giudicato, evitato, emarginato da tutti, eccetto che dalla piccola Giuditta, costretta a giocare da sola a moscacieca, perché tutte le sue amichette l’hanno lasciata sola, tutte terrorizzate dai genitori che le mettono in guardia dall’uomo nero… Ma lei non ha paura. Sempre con gli occhi bendati in un eterno gioco, metafora di chi in generale è ignaro del pericolo, e finisce nelle fauci del mostro.
Anche questa, un’altra bella prova di abilità, dove l’orrore in fondo sembra, forse, vinto dalla pietà. Amen.

Marcela Salinas in “Estado vegetal” di Manuela Infante (foto Call The Shots)

E, INFINE, ANCHE LE PIANTE FANNO TEATRO

Sempre nella stessa serata, in altra sede del suggestivo Arsenale veneziano, è andato in scena “Estado vegetal”, della cilena drammaturga e regista Manuela Infante, con Marcela Salinas. L’allestimento potrebbe sembra una eccentrica prova d’inventiva teatrale, suggerendo, da una parte, un problema ecologico di vaste e mondiali proporzioni, in una guerra subdola e spietata tra uomini e vegetali; e, dall’altra parte, un tema più sottile e inquietante: la vita e il linguaggio dei vegetali, che vivono soffrono e reagiscono, seppur immobili, come tutti gli animali, provando anch’essi gioie e dolori, amori e paure.
Lo show prende spunto dalle teorie rivoluzionarie sulla vita e l’intelligenza delle piante del filosofo Michael Marder e del neurologo Stefano Mancuso, il quale, tra l’altro, ebbe a dire: “Le piante non dimenticano. La sensitiva Mimosa pudica chiude le foglioline quando si sente minacciata. Tutte le cellule vegetali emettono un impulso elettrico…”
Ricordo negli Anni 50 un libro fanta-poliziesco, nel quale si raccontava che un Ficus aveva assistito a un misterioso omicidio, ma che non si riusciva a incastrare un sospettato, non essendoci prove e testimoni. Eccetto il Ficus… Ah, la preveggenza della fantascienza. Indovinate il finale.
La definizione di show per la prestazione della protagonista Marcela Salinas nel testo della Infante non è impropria. L’attrice rivela doti mimiche di singolare potenza espressiva, della quale si serve a beneficio di una teatralità drammaturgicamente dispersiva e qua e là calante di tensione, ma tutta impostata sull’affascinante gioco di una rara seppur eccessiva espressività, che, per più di un’ora e mezza, ci è sembrata interessante ma ripetitiva.
Eppure, sotto sotto, l’argomento trattato, seppur con cedimenti finali ecologicamente declamatori e di sospetta esaltazione politica, è di straordinaria attualità. Se ne parla, oggi, di intelligenza vegetale, e se ne parlerà sempre di più. Ma, teatralmente parlando, la struttura drammaturgica qui si disperde per eccesso. Soprattutto quando è stato trascurato una naturale e travolgente conclusione, quando tutte le piante in scena si son messe ad applaudire l’interprete con urla da stadio. Un finale che avrebbe giustamente premiato il tanto amore di un’attrice per il mondo vegetale. Un mondo, chissà, che, tra migliaia d’anni, forse avrà il sopravvento. E vedrà nascere un uomo nuovo…