La persecuzione di Arlecchino per il grande Edmund Kean. E non solo per lui. Infine fu la gloria. Ma quante tragedie

VERONA, giovedì 5 luglio ► (di Paolo A. Paganini) Per l’inaugurazione del Festival Shakespeariano nell’incanto del Teatro Romano, in riva all’Adige, lì dove passava l’antico Ponte Postumio, duemila anni fa, oggi scomparso, il Comune di Verona ha scelto il bersaglio grosso.
Non poteva sbagliare, puntando su Gigi Proietti.
L’eclettico comico, cantante, presentatore, geniale imperversatore fra cinema, teatro, televisione, collezionista di premi e riconoscimenti, e soprattutto uno dei massimi rappresentanti di romanesche e gioiose commedie all’italiana, tra facezie e barzellette, riserva, nella sua stupenda duttilità interpretativa, anche imprevedibili sorprese in più seriose incursioni.
In fatto di Shakespeare, per esempio, riserva al cune referenze. Più di quanto si possa almanaccare. Per una di quelle rare e fortunose coincidenze, Proietti sta ora dedicando estro e duttilità sul versante tragico con una tesa, commossa e sorprendente interpreazione di “Edmund Kean”, dove appunto impersona il celebre e sciagurato attore elisabettiano (1787-1833), amato, osannato, idolatrato per la sua elegante ed istrionica presenza scenica, odiato per le sue irriducibili intemperanze: marito infedele (imperdonabile in un’epoca bacchettona), irriducibilmente dedito a droghe ed alcol, sifilitico, arrogante e irrispettoso di sé e degli altri.
Dunque, teatralmente perfetto.
Se ne innamorò Dumas, che non resistette alla tentazione di scrivere il dramma “Kean, ou désordre et génie”, genio e sregolatezza (frase che poi visse per conto suo in tanti altri contesti), Sartre lo adorò, e molti fra i più famosi attori italiani vi si avventarono, per farne cavalli di battaglia, da Vittorio Gassman, nel 1955, a Pambieri, 2012. E in mezzo, fra i due estremi, un’orda di famelici attori di successo. Senza diminutio, inseriamo tranquillamente Gigi Proietti, che s’è già cimentato e ora si ripropone e si confronta  con quel monumento d’attore shakespeariano, riscoperto e rivisitato dal drammaturgo Raymond FitzSimons fine anni Settanta (morì nel 1982).
Di per sé, questo allestimento, sia di Dumas, sia di FitzSimons, ha un meccanismo drammaturgico  diabolicamente semplice  e perfetto.
Un attore, in camerino, rivive ricordi e nostalgie, memorie e successi, mentre, come barbagli illuminanti, gli passano per la testa brani famosi, disperati lacerti di opere shakespeariane, in monologhi autoreferenziali, da una parte come omaggio all’adorato Shakespeare, dall’altra come idea fulminante per celebrare il Settantesimo veronese con un excursus di simbolici personaggi, rivisitati da Kean/Proietti, in una specie di Reader’s Digest dell’opera shakespeariana in onore e a memoria del Teatro Romano.
In parallelo, in questo spettacolo in due tempi d’una cinquantina di minuti ciascuno, Kean, nel suo camerino, in un ideale Globe Theatre, rivive soprattutto la sua vita dissoluta, fra alcol e amori da strada, tragedie e abbandoni (la morte del figlio quattrenne, più per fame e miseria che per malattia), la separazione dalla moglie, gli scandali e i processi per adulterio, e soprattutto la sua irriducibile nevrosi e sete d’affermazioni teatrali, senza trascurare alcove di amanti appassionate e di avide puttane.
Il monologo, in questo scenico e suggestivo camerino, percorre l’infelice esistenza di Kean e la sua disperata determinazione di diventare l’incontrastato e unico re della scena shakespeariana. Ma è sempre accompagnato da una maledizione, da una condanna, da una persecuzione: dover recitare per l’eternità, tra impresari stolidi,ignoranti e truffaldini, l’odiato ruolo di Arlecchino.
Infine, come si sa, verranno gloria, sterline e riconoscimenti.
Ma ormai sarà troppo tardi per ritrovare pace e serenità.
Con una mente ormai confusa, morirà in scena sopraffatto dalle droghe e dalla sifilide. Amen.
Ma ecco l’aspetto sorprendente della celebrazione veronese popolar-shakespeariana. Attraverso una ricca campionatura di brani, esaltanti, disperati, rievocati o accennati, in una tragica dissociazione mentale tra Otello e i suoi stessi pensieri, tra Riccardo III e le sue stesse deformazioni morali, tra Amleto e la sua stessa incapacità d’amare le sue Ofelie, tra Shylock e la sua stessa incapacità di essere pienamente accettato, una specie di ebreo errante fra le lande dell’infelicità. E soprattutto sottolineata e insistita dall’invenzione di quel persecutorio Arlecchino, come per ciascun essere umano che aspiri alla grandezza eppure soccombente per la fantasmica presenza di tanti Arlecchini.
Anche per il settantasettenne Gigi Proietti c’è stata una condanna? Qual è stato il suo simbolico persecutorio Arlecchino?  È da ricercare fra le pieghe e nei bauli, tra i fantasmi dell’anima di quel suo vasto repertorio comico? Fra gli innegabili successi delle sue gaudiose trasmissioni televisive? Fra i suoi film ridanciani? Fra le  barzellette e le esilaranti facezie romanesche dei suoi monologhi canterini?
Quando lui, magari, come Kean, aspirava soltanto alla grande tragedia?
Ha inseguito Kean da trent’anni. A Taormina nel 1989, al Sistina di Roma e al Manzoni di Milano nel 1991, al Globe Theatre di Villa Borghese nel 2017.
Ed ora il Teatro Romano.
E finalmente, per Gigi Proietti, fu la gloria nell’agognata tragedia!
Platea e spalti gremitissimi. Un delirio di applausi, pubblico in piedi.
Addio maledetto Arlecchino.
Repliche solo il 6 e il 7. Un peccato perderlo.