(di Andrea Bisicchia) Debbo la lettura del libro: “Critica del Teatro puro” di Alessandro Fersen, Akropolis Libri, al premio a lui intestato e assegnato presso il Chiostro “Nina Vinchi” del Piccolo Teatro, organizzato da Ombretta De Biase.
Alessandro Fersen (1911 – 2001) ha attraversato il secolo scorso, dedicando gran parte della sua vita al teatro, cercandone, però, la purezza, quella che appartiene alla dimensione mistica e ludica, oltre che rituale, a cui arriva dagli studi d’antropologia e di filosofia. La sua prima pubblicazione è dedicata a “L’Universo come gioco” (1936), rielaborazione della sua tesi di laurea, discussa all’università di Genova, col filosofo Giuseppe Rensi, allontanato dalla cattedra di Filosofia morale perché non firmò il decreto fascista di obbedienza al regime. C’è da dire che, proprio negli anni della sua formazione universitaria, Fersen aveva seguito i corsi dell’etnografo Levy Bruhl, teorico del prelogismo, ovvero di quell’attività di pensiero che viene prima della logica e che appartiene ai popoli primitivi, i cui comportamenti erano inscindibili dal loro modo di concepire la religiosità, oltre che la magia.
Aveva anche letto il libro di Huizinga, “L’uomo ludens” (1936), dove il filosofo olandese teorizzava il rapporto tra l’uomo e il gioco, il cui archetipo lo si doveva ricercare in un frammento di Eraclito: “L’eternità è un fanciullo che gioca ai dadi: regalità del fanciullo”, frammento conosciuto anche dal Pascoli per la sua Teoria del Fanciullino.
Il gioco era stato anche una prerogativa del dionisismo, della conoscenza concepita come prodotto di una mitica gioia, quella che prova il fanciullo dinanzi al mistero dell’universo, il cui ordine universale è un vero e proprio spettacolo. Il passaggio dallo spettacolo dell’universo a quello del teatro ne è la conseguenza. Uno spettacolo, infatti, deve essere costruito sull’ordine, sulle regole, sulla disciplina. L’ordine implica un preordinato, quello che prepara il regista per dare regolarità alle sue idee e per ordinare il mistilinguismo scenico. L’ordine, pertanto, è l’elemento fondamentale di ogni finalismo, anche di quello della messinscena, dove occorre dare ragione di tutto e dove è indispensabile raggiungere la perfezione (areté).
La vita umana, spesso, è ridotta a spettacolo, a pura rappresentazione. Schopenhauer aveva scritto “Il mondo come volontà e rappresentazione”, Goffman ritornerà sull’argomento scrivendo “La vita quotidiana come rappresentazione”, Fersen si inserisce in questa problematica per costruire una sua idea di rappresentazione, concentrandosi sulla funzione dell’attore che recita, ben diverso dall’attore sociale, il primo rappresenta, il secondo cerca di imbrogliare, entrambi però utilizzano la finzione. L’attore a cui Fersen aspira è quello che riesce a ricreare la “purezza” dell’interpretazione, facendo ricorso al mnemodramma, ovvero al dramma della memoria, ben diverso dalla reviviscenza di Stanislavskij e dallo psicodramma di Moreno.
L’attore, per Fersen, deve essere capace di rendere visibile l’invisibile, attraverso un contatto costruito su una ritualità che lo trasferisca in una sorta di trance. In questo modo, Fersen recupera i rituali antichi, la loro autenticità, oltre che il loro sentimento del giuoco.
Alessandro Fersen, “Critica del teatro puro”, Akropolis Libri 2013, pp. 486, € 18