La storia di Barnum e dei suoi “fenomeni da baraccone”. Fiaba in musical d’uno spregiudicato impresario di circo

(di Marisa Marzelli) Non c’è uscita più adatta del giorno di Natale per il musical The Greatest  Showman, capitanato da un elegante Hugh Jackman in stato di grazia canterina e ballerina, già candidato a tre Golden Globes: migliore film nella categoria commedia o musicale; migliore protagonista (Jackman); migliore canzone (This is Me) cantata da Keala Settle (nel ruolo della donna barbuta del circo).
Diretto dall’esordiente australiano Michael Gracey (viene dalla pubblicità), il film è una biografia romanzata ed edulcorata della vita spericolata di Phineas Taylor Barnum, un uomo che aveva un sogno: realizzare “il più grande show della terra”, per stupire e divertire il pubblico popolare. Divenne il più famoso (e discusso) impresario circense dell’800.
The Greatest Showman è un costante movimento colorato e festoso, dal budget di oltre 80 milioni di dollari. All’inizio si raccontano sbrigativamente le origini del personaggio, quasi il compendio di un racconto di Dickens: figlio di un povero sarto, ma determinato e visionario. Divenne un re dello showbusiness; inventò forme di marketing aggressive e spregiudicate, sfruttando ogni forma di promozione (con volantini anche sullebottiglie del latte e manifesti sulle carrozze dei tram di New York) e approfittando per farsi pubblicità pure dei giudizi negativi che fioccavano addosso al suo modo di fare impresa dalla borghesia colta e benpensante (esemplari le stroncature del critico del New York Herald). Aveva già un concetto moderno dell’intrattenimento.
Il musical, tornato in auge dopo il trionfale successo e gli Oscar di La la Land, l’anno scorso, è il genere ideale per raccontare questa storia da tipico sogno americano in forma di fiaba. Imbarcato per la sceneggiatura Bill Condon (il regista di un altro successo, La Bella e la Bestia), partendo dal soggetto e trattamento di Jenny Bicks, The Greatest Showman racconta ascesa, caduta e rimonta di Barnum, che sogna e realizza in grande. Sposa la ragazza benestante (Michelle Williams) amata sin da quando erano bambini e sfida i pregiudizi classisti e quelli su ogni tipo di diversità. Ingaggia trapezisti e reietti vari (la donna barbuta, il nano, l’uomo più alto del mondo) riuscendo a renderli fieri delle loro diversità, facendoli sentire unici e persino orgogliosi degli handicap.
Il film sorvola sull’ambiguità del concetto, perché in fondo Barnum si serviva dei “fenomeni da baraccone” per fare cassetta, e invece promuove Barnum come un uomo privo di preconcetti. E lo fa con una carica di energia, empatia e buonumore che coinvolgono lo spettatore. La colonna sonora, le undici canzoni originali (di Benj Pasek e Justin Paul), gli stessi di La la Land), le luccicanti coreografie fanno il resto.
Se l’impianto musical funziona alla perfezione, la struttura narrativa è più debole. Alcune vicende collaterali non sono approfondite, come la parte dei rapporti famigliari di Barnum che, quando tenta di alzare il livello artistico degli spettacoli ingaggiando una sofisticata cantante europea (Rebecca Ferguson), rischia di mettere in pericolo la sua vita coniugale. O come la storia d’amore del socio ereditiero (Zac Efron) in rotta con la famiglia e scandalosamente innamorato di una bella trapezista di colore (Zendaya), legame all’epoca inconcepibile.
L’attore australiano Hugh Jackman, diventato internazionalmente famoso interpretando l’iconico Wolverine nella saga supereroistica degli X-Men, è particolarmente dotato per il musical (aveva già ottenuto una candidatura all’Oscar per Les Misérables), canta e balla bene ed ha un’innata eleganza. A confronto con la sua carica di energia sia Zac Efron che Michelle Williams appaiono personaggi meno a fuoco.