La strada non finisce ai piedi d’un semaforo. Riprendere, andare. Non importa dove. La libertà va in ogni direzione

(di Piero Lotito) Un «taccuino di viaggio». Così Curzia Ferrari definisce il suo ultimo libro, Semaforo rosso (descritto anche come «composito», vedremo perché), pubblicato da Nino Aragno, editore delle sue più recenti raccolte di poesia: Pietra (2013), Lucertola (2011), Fondotinta (2006), nonché del romanzo A fuochi spenti nel buio (2004). Un viaggio sfibrato, il cui camminare genera fastidio, ansia e malumori, ma anche subitanee accensioni di energia. «Combustioni», sarebbe meglio dire, giacché concluse in sé, non seguite da riprese di fiducia. Un libro duro, certo: il meno indulgente – se mai l’autrice si è lasciata andare a questa piega di sentimento – della sua vasta produzione, il più inquieto e tagliente.
Un taccuino di viaggio composito, dunque, la cui prima parte, formata da 47 poesie, «riguarda la mia persona, le mie vicinanze e le mie distanze, nel momento più “serio” della vita» – avverte in presentazione Curzia Ferrari, e la restante presenta una selezione di cinque poeti russi dell’Ottocento che in vario modo orbitarono attorno a Puškin, finendo coll’essere chiamati i poeti della plejade puškiniana. Non si pensi, qui, a una ruvida deviazione di “viaggio”: la poesia russa è per Ferrari come l’acqua per il pesce, vi si muove con la gioiosa agilità dei salmoni, che risalgono le correnti anche in cascata. Guardiamo intanto le 47 poesie e quel titolo, quel rosso del semaforo. Una fermata, non c’è dubbio. Una sosta nell’andare, il tempo d’un rapido riposo o d’una sequela di sbuffate d’impazienza: dipende dall’umore col quale ci si presenta lì sotto. Quel che è certo, è che la marcia non può finire ai piedi d’un semaforo: in città (la vita?), chi si ferma è d’ingombro. Bisogna dunque riprendere il viaggio, camminare, allontanarsi – «circolare!», intimavano un tempo gli agenti della Celere ai perditempo -, andar via. E Curzia Ferrari, che, pure, confessa la sua stanchezza («Le gambe a tu per tu vanno e ci leggono / il suolo, decifrano dove posare il piede. / La mente fatica a seguirle, è piena di parole / e si duole di non assecondarle. / Volete sedervi un momento parole / incancrenite, mal spartite, strapazzate…»), sa bene che la strada non è finita, il traguardo è laggiù, remoto e sconosciuto, e allora quelle gambe devono ancora una volta portare lontano il peso («Eppure so che nessun luogo è lontano»). Dove? In qualche posto, non importa quale, perché «la libertà va in ogni direzione / – sarà lungo il viaggio, / ripartire da zero non è uno scherzo».
Un libro duro, questo di Curzia Ferrari. Un libro che lascia svegli come dieci caffè in meno di mezz’ora. Parole che sono lame. E a volte – volutamente – non ben affilate: per fare più male. Ma sono proprio le parole («qui e là abbandonate, mal seminate»), nella tormentata poesia di questa autrice che non lesina sulla mola, il lasciapassare per un viaggio più lungo e non banale. Ed è con le parole che, una volta superato il semaforo rosso – simulacro di brevi sconfitte, mica la fine del tutto -, il cammino si allunga o si accorcia, a seconda della loro potenza. In fin dei conti, confessa beffarda Curzia Ferrari, «A deliziarmi in questo mondo / è il fatto che lo lasceremo».
La seconda parte del libro, si diceva, apre a un terreno familiare all’autrice, che traduce le prove dei poeti della plejade puskiniana: Pëtr Andreevič Vjazemskij, Anton Antonovič Del’vig, Nikolaj Michailovič Jazykov, Eugenij Abramovič Baratynskij, Aleksandr Ivanovič Polejaiev. «Non si pensi – scrive Ferrari presentando i cinque russi – a una cultura lontana, da inglobare come reliquia esotica: al contrario, queste poesie sono conferma di un vivo meccanismo linguistico-sociale e di atmosfere vicine al nostro Paese più di quanto si sospetti. C’è una strana liaison fra i mondi poetici, cui è impossibile sottrarsi».

Curzia Ferrari, “Semaforo rosso”, Nino Aragno Editore 2016, pp 95, € 12.