La tornita e misurata esecuzione della Verdi salva l’opaca regia di Michieletto. I tempi di Strehler? Ormai irripetibili

L'OPERA DA TRE SOLDI. Produzione Piccolo Teatro di Milano. Regia Damiano Michieletto. Foto ©Masiar Pasquali

L’OPERA DA TRE SOLDI. Produzione Piccolo Teatro di Milano. Regia Damiano Michieletto. Foto ©Masiar Pasquali

MILANO, mercoledì 20 aprile ► (di Giorgio Ferrari e Paolo A. Paganini) Quando nel 1928 George Gershwin – che quattro anni prima aveva profeticamente frantumato con Rhapsody in Blue la linea di confine fra la musica colta e il jazz – si recò in tournée in Europa, già allineava fra i suoi ammiratori musicisti illustri come Stravinskij, Prokof’ev, Ravel, Berg e Schoenberg. E Kurt Weill. Quest’ultimo era quello che maggiormente gli rassomigliava, quasi da considerarlo un vero e proprio rivale. In quell’anno Gershwin stava abbozzando il suo poema sinfonico An American in Paris. Anche Weill, figlio del primo cantore della sinagoga di Dessau e appena ventottenne, stava scrivendo le musiche per Die Dreigroschenoper, l’opera teatrale di Bertolt Brecht basata sulla rielaborazione della Beggar’s Opera di John Gay, scritta esattamente due secoli prima su musiche del berlinese Johann Christoph Pepusch.
Come Gershwin, anche Weill era rimasto incantato e contaminato dal jazz, dal cabaret, dalla musica da ballo, alla quale tuttavia, a differenza di Gershwin, marxianamente (ma diremmo meglio: brechtianamente) assegnava quel ruolo rivoluzionario e propedeutico rivolto alle masse popolari che Schoenberg e Berg sdegnatamente rifiutavano. Esattamente ciò che Brecht andava cercando per la sua Opera da tre soldi. Kurt Weill – pensiamo solo alla sua Alabama Song dal Mahagonny Songspiel – aveva orecchio. Per lo Stravinskij dell’Histoire du Soldat come per gli insegnamenti di Busoni, soprattutto per quel motto che il maestro gli consegnò come un sigillo: «Non aver paura della banalità».
Riascoltando la musica di Weill nell’Opera da tre soldi con la regia di Damiano Michieletto e la direzione musicale di Giuseppe Grazioli, andata in scena ieri al Piccolo Teatro, abbiamo invidiato gli anni di Weimar. Anni in cui, a differenza della modestissima e musicalmente desolante epoca in cui viviamo oggi, la musica abbracciava il mondo, lo raccontava e nel caso di Weill – discepolo di Brecht e amico-amante di Lotte Lenya, sulla cui voce temprata da una vita difficile (finì tra le altre cose per fare anche la prostituta) modellava le sue canzoni – arrivava a divorarlo, restituendolo all’ascoltatore come una prodigiosa palingenesi. Ed è stata infatti la musica, nella tornita e misuratissima esecuzione degli strumentisti della Verdi di Milano, a tenere assieme e in qualche momento a salvare l’allestimento di Michieletto, e non solo per l’intramontabile Die Moritat vom Mackie Messer o Die Seeräuber-Jenny, la cui seducente cantabilità a ottantotto anni di distanza conserva intatto il suo fascino, ma soprattutto per quel sistema-mondo che sornionamente sottende, cui la regia, per lo meno nella prima, non è ancora riuscita a conferire una coerente rotondità.
Faremmo torto al cast di questa edizione rammemorando gli strehleriani Milva, Modugno, Agus, la Lazzarini: stigmi di un’epoca forse irripetibile di cui i personaggi visti in scena ieri rischiano di apparire poco più che ombre; come dice lo stesso Michieletto, «non ho mai pensato di scritturare dei cantanti, perché credo che non si venga a vedere l’Opera da tre soldi per il gusto di sentire “cantare bene”. Con il maestro Grazioli abbiamo invitato gli attori a sfruttare la possibilità di giocare sul filo che separa parlato e cantato». Ne è derivato uno Sprechgesang di non sempre nitidissima fattura, sorretto da un’orchestra che si avvaleva dell’originale strumentazione con flauti, ottavino, sassofoni, trombone, chitarre, mandolino, banjo, percussioni e un contrabbasso. Ma sappiamo già che quel recitarcantando che evita platealmente i ruoli chiusi dell’opera tradizionale troverà la sua forma più compiuta con il procedere delle repliche. Basta non attendersi dal cast ciò che Weill stesso – per non dire di Brecht – rifuggiva con orrore. È l’espressionismo, bellezza, e tu non puoi farci niente… (Giorgio Ferrari)

UN ALLESTIMENTO INGESSATO, INGABBIATO, COME UN NOIOSO PROCESSO IN UN TRIBUNALE DA MASSIMA SICUREZZA

L'OPERA DA TRE SOLDI. Produzione Piccolo Teatro di Milano. Regia Damiano Michieletto. Foto ©Masiar Pasquali

Una delle scene finali dell’OPERA DA TRE SOLDI. Mackie sta per essere impiccato. Ma... 

L’idea è tutto. Si parte da un’idea, e si scopre l’America. Ma non sempre le idee pagano. A volte ci si innamora di un’idea, e si finisce per sbatterci. Ogni regista di talento parte da un’idea. Anche Damiano Michieletto è partito da un’idea, per allestire, con i suoi venti attori-cantanti, “L’opera da tre soldi” di Bertolt Brecht e Kurt Weill, in scena al Piccolo Teatro Strehler.
L’idea di Michieletto. “Leggendo fra le righe“, dice il regista, “tutta l’azione si svolge in tre giorni” (fino a quel fatidico venerdì dell’impiccagione di Mackie Messer, gran puttaniere, impresario di rapine e assassinii). “All’interno di questi tre giorni, la storia viene continuamente raccontata, come in un processo, con varie scene, concepite come tante fasi processuali, con tanto di citazioni, dove tutti sono parti in causa, come giudici o come testimoni“. D’altra parte, all’interno di un processo, tutti sono “attori”, per definizione.
Le tre ore di spettacolo (due tempi con un intervallo) si svolgono dunque all’interno del tribunale, racchiuso in un’alta e massiccia gabbia di ferro di un maxi recinto, dove tutto viene vissuto o rievocato, incastonando, nel racconto scenico, prigione, postribolo, seduzioni di prostitute, casa di Peachum, pranzo e sciagurato matrimonio clandestino di Mackie Messer con Polly, figlia di Peachum (capitano d’industria di barboni, disgraziati e diseredati, ai quali conferirà un brevetto che li abilita all’esercizio della “professione”, con rigide percentuali sugli affari). In questa scenografia, con tanto di corte, panche dei testimoni o del pubblico, gabbia dell’imputato, scranno del giudice, guardie e poliziotti, i venti “attori” sono sempre presenti, muti e severi, con qualche sobbalzo fuori scena, imposto dal copione brechtiano, ma sempre comunque nell’ambito di questo tribunale da operetta, che risulta tuttavia statico, ingessato, burocratizzato, come se Michieletto avesse voluto poco epicamente “ingabbiare” Brecht.
In altre parole, un’idea sbagliata, che ha sottratto passione, slancio, fascino, colore e azione a questa “Opera da tre soldi”, che, volenti o nolenti, in questo teatro che porta il nome di Strehler, richiama alle famose edizioni del ’56 e del ’73, nella pur angusta sala di Via Rovello.
Temo che questa di Michieletto non sarà altrettanto gloriosa.
A proposito di date, rammentiamo – per comodità dei lettori e dei tanti studenti che non mancheranno nelle repliche – la seguente successione cronologica (con qualche non inutile annotazione).
1728: nasce “L’opera del mendicante”, di John Gay, ispirata alla sordida miseria dei quartieri malfamati di Soho;
1928: Brecht riprende, con Weill, l’opera di John Gay, che diventa “L’opera da tre soldi”, allegoria sociale e morale nella Londra intorno al 1900;
1956: Primo allestimento di Strehler, in un’ambientazione berlinese di primo dopoguerra (con 9 orchestrali, diretti da Bruno Maderna);
1976: secondo allestimento di Strehler, con una band di sette orchestrali, tipo New Orleans, trapiantata nella Germania del 1930;
19 aprile 2016: Michieletto, in una contemporanea ambientazione, evidenzia il divario di ricchi e poveri, di nord e sud del mondo (dietro alle sbarre c’è anche un gruppo di emigranti, con il tipico salvagente dei sopravvissuti agli scafisti e al Mediterraneo). In buca, dodici professori d’orchestra che suonano ventitré strumenti diversi.
Da sottolineare la generosa dedizione interpretativa di tutta la compagine attoriale. Trai venti attori almeno sottolineeremo la distaccata e brechtiana presenza di Peppe Servillo (Peachum), di Margherita Di Rauso (autoritaria signora Peachum) e di Maria Roveran (deliziosa Polly Peachum). E ancora: Giandomenico Cupaiulo (Un cantastorie), Sergio Leone (capo della polizia, chiamato “tigre”, più sentimentale che feroce), Stella Piccioni (volitiva figlia del “tigre”), infine: la spagnola Rossy De Palma, imponente e sanguigna Jenny delle Spelonche (attrice di Almodovar) e Marco Foschi, un Mackie Messer più gigolo che feroce bandito.
Pubblico della prima con un parterre di personalità e gente dello spettacolo, un po’ freddino ma alla fine generoso di applausi per tutti. (Paolo A. Paganini)