(di Andrea Bisicchia) Per parlare del libro di Tolstoj “Su Shakespeare e il dramma”, edito da Utopia, credo che occorra partire da un suo saggio del 1897, “Che cos’è l’arte”, dove il grandissimo narratore russo sostiene che la vera arte sia quella “popolare” e non “un insieme di forme canonizzate”; come dire che il genere più adatto debba essere quello del naturalismo imperante. Tolstoj fu anche un autore di teatro, in Italia il suo testo più noto, “La potenza delle tenebre” (1886), è stato più volte portato in scena da Compagnie primarie e può essere considerato la Summa delle sue idee sul Dramma, costruito com’è sul tema del delitto e del rimorso. Ricordo un’edizione di Mauro Avogadro per il Teatro Stabile di Torino (2000), e un’edizione di Dodin allo Strehler di Milano (2011).
Cosa rimproverava Tolstoj a Shakespeare?
L’assenza di naturalezza, l’artificiosità delle trame e del linguaggio, la mancanza di sincerità in quasi tutte le sue opere. A cosa era dovuta, quindi, la sua fama in Russia? Molto probabilmente ai giudizi positivi di Turgheniev che ne riteneva soprannaturale la grandezza e straordinaria la poesia. Per Tolstoj, Turgheniev era stato il creatore di una suggestione mimetica, corroborata da una stampa compiacente. L’occasione per scrivere il saggio citato fu la lettura di uno studio di Ernest Crosby (1856- 1907), scrittore americano e suo seguace, a cui fece seguire, nel 1903, una prefazione che, successivamente, amplierà, fino a farla diventare un vero e proprio saggio (o pamphlet?), dopo aver letto quasi tutta la produzione shakesperiana che, a suo avviso, non corrispondeva ai canoni artistici del tempo, dato che l’arte deve essere necessaria alla vita e al progresso verso il bene, sia del singolo, che dell’umanità.
Tolstoj ricorda come, dopo la lettura di Re Lear, Romeo e Giulietta, Amleto, Macbeth, non solo non abbia provato soddisfazione, ma, al contrario, abbia sentito un’irresistibile ostilità, oltre che imbarazzo, tanto che quelle che erano ritenute le tragedie più perfette da tutto il mondo intellettuale, erano, per lui, semplicemente delle opere disgustose. Per confermare la sua tesi, dopo un analisi dettagliata del “Re Lear”, afferma di essersi trovato dinanzi ad un’opera molto scadente e innaturale, con situazioni anacronistiche. Non risparmiava nulla al Bardo, lo accusa di incontinenza, di logorrea, considerava i discorsi affidati ai “folli” intrisi di “parole orripilanti”, mentre i monologhi dei “buffoni” sapevano di “insipide spiritosaggini”. Anche la scelta del genere era, a suo avviso, sbagliata perché, anziché utilizzare il metodo drammatico, Shakespeare faceva ricorso al metodo epico. Ciò che gli mancava era il senso della misura, dovuta alla distanza tra poesia e contraffazione, e, soprattutto, al non credere in quello che scriveva.
Facendo riferimento ad alcuni laudatori di Shakespeare come Gervinus, non esita a mettersi contro le sue teorie, in particolare quella secondo la quale le norme positive della religione e del diritto di Stato, presenti nelle opere del Bardo, siano accessibili soltanto alle persone colte, trascurando le persone provenienti dal popolo, a cui l’arte dovrebbe essere indirizzata. Lo stesso atteggiamento usò con Brandes, il grande amico ed estimatore di Ibsen, del quale non accettò la teoria machiavellica applicata a Shakespeare, quella del fine che giustifica i mezzi.
Per Tolstoj contano il contenuto e un linguaggio ad esso fedele, quello dei drammi di Shakespeare rappresenta, a suo avviso, “la più bassa e triviale concezione del mondo”. Gli studi accademici successivi,con le interpretazioni sceniche in tutto il mondo, hanno dimostrato che le idee di Tolstoj appartenevano ad un periodo particolare, quello del realismo che strideva col mondo simbolico e magico di Shakespeare.
Il volume è preceduto da una Premessa di Roberto Coaloa, che ne è anche il traduttore, ed è seguito da un ingente apparto critico, dovuto sempre al curatore.
Lev Tolstoj: “Su Shakespeare e il dramma”, a cura di Roberto Coaloa, Libreria Utopia Editrice 2017 – pp140, €17.