La vera storia di Irène Frachon, la piccola dottoressa di Brest che sfidò il secondo colosso farmaceutico di Francia

(di Patrizia Pedrazzini) Irène Frachon non è semplicemente una pneumologa dell’ospedale universitario di Brest, in Francia. È un medico che fa il medico unicamente per assistere e curare le persone. Per lei la salute dei pazienti e l’etica professionale vengono prima di tutto. Crede nei propri ideali, non è alla ricerca di poteri. Per questo, quando scopre un legame diretto tra una serie di morti sospette, causate da valvulopatia cardiaca, e l’assunzione del Mediator, un farmaco per diabetici in commercio da oltre trent’anni, non la ferma più nessuno.
“150 milligrammi” (“La fille de Brest”), della francese Emmanuelle Bercot, è la storia vera della lotta fra una piccola dottoressa di provincia e la seconda Casa farmaceutica di Francia. In nome della deontologia e, prima di tutto, della giustizia. Una guerra sproporzionata (che un po’ richiama la lotta condotta contro la statunitense Pacific Gas da Erin Brockovich, la segretaria precaria interpretata da Julia Roberts nel film di Steven Soderbergh del 2000), nella quale Irène però non è sola. La affiancano un piccolo gruppo di ricercatori dello stesso ospedale, dubbiosa e insieme coraggiosa “banda di bretoni provinciali” e un po’ matti, e la famiglia: un marito che rasenta la santità e quattro figli amanti della musica che tutte le sere si abbandonano – madre più che consenziente – ad allegri concertini casalinghi.
Ma il pezzo forte è lei. Interpretata dall’attrice danese Sidse Babett Knudsen (Teresa Cullen nella serie “Westworld”), dà vita a una figura di medico forte e insieme emotiva, testarda e incapace di pianificare, ma sempre fresca, spontanea e sincera. Che non ce la fa a tenersi dentro niente, a costo di imprecare da sola nei corridoi dell’ospedale. E, soprattutto, che non si tira mai indietro. Le piace citare Einstein: “Il mondo è un posto pericoloso in cui vivere, non a causa di coloro che compiono azioni malvagie, ma a causa di coloro che stanno a guardare senza fare niente”.
E poi ci sono le case bianche e squadrate di Brest, e il vento e le onde dell’Atlantico, dove Irène va a nuotare e ad allentare le tensioni.
“150 milligrammi” è, chiaramente, un film di denuncia e di impegno, sociale e professionale. Quindi interessante e, in più, ben raccontato. Se proprio un limite ha, è quello di essere, soprattutto nella seconda parte (riservata alle tappe del faticoso cammino che Irène compie, praticamente sola, per ottenere ascolto), un po’ troppo dettagliato, quando forse si preferirebbe una maggiore velocità d’azione. Ma si tratta di un peccato veniale, che comunque va a tutto vantaggio della precisione del racconto (e non sarà un caso che Emmanuelle Bercot, figlia di un cardiochirurgo, prima di approdare al cinema abbia a sua volta desiderato fare il medico).
In più, la “freddezza” dell’inchiesta risulta ben integrata, da un lato dalle scene di anatomia patologica (con i polmoni rigonfi, i cuori ingrossati, le valvole saltate sui tavoli delle autopsie), dall’altro dalla serena quotidianità dei momenti privati e familiari. Riuscendo, in più di un’occasione, a strappare anche qualche sorriso. Come la sera nella quale Irène torna a casa agitata (l’aver toccato grossi interessi comincia a preoccuparla) e ansiosa si rivolge al marito: “Dove sono i ragazzi? Perché non sono qui? E la macchina? Dobbiamo far controllare i freni”, per sentirsi pacatamente rispondere: “Va tutto bene. Stai calma. Siamo in Francia, nel 2010, non nel sud dell’Italia o in Russia”.
Come spiegano puntualmente i titoli di coda, nello stesso anno il Mediator (150 milligrammi è la dose di una compressa) viene ritirato dal mercato. Negli anni ha causato dai 500 ai 2000 morti. E comunque la vicenda, soprattutto per quanto riguarda gli indennizzi, ancora non è conclusa.