(di Andrea Bisicchia) – Vittorio Sgarbi è l’ultimo degli aedi, capace di raccontare oralmente ciò che analizza con i suoi occhi, sia che si tratti di un quadro o di una manifestazione politica. Le sue capacità innate, confrontate con un lungo studio della critica longhiana, si caratterizzano per un lessico e un sapere capaci di coniugare il passato col presente, la storia dell’arte con quella della fotografia, del cinema, del teatro, della letteratura.
In questo uso combinatorio di espressioni artistiche diverse, un antecedente è, forse, da ricercare in Alberto Arbasino. In verità, ciò che può legare Sgarbi a Longhi, ad Arbasino, a Testori, è la forza inventiva della sua prosa che sa di oralità, tipica dei rapsodi e degli aedi, trattandosi di una oralità poetica, capace di suscitare emozioni in chi l’ascolta, ma anche la sua vocazione per l’arte, a cui è stato chiamato, come quella del Matteo caravaggesco chiamato da Cristo all’apostolato.
Nel suo ultimo libro: “Caravaggio. Il punto di vista del cavallo”, Ed. La nave di Teseo, Sgarbi ha trasferito, nella sua lucida prosa, quanto aveva raccontato in uno spettacolo recitato al Teatro Carcano di Milano e in altri teatri della penisola. Ciò che caratterizza le sue Lezioni magistrali che, successivamente, diventano libri, è il modo di accostare l’artista, preso in esame, con artisti della nostra contemporaneità. Nel caso di Caravaggio, Sgarbi ha trovato delle similitudini tra la sua arte e quella di Burri, paragonando, per esempio, il Grande cretto di Gibellina al “Seppellimento di Santa Lucia” che si trova a Siracusa, non più presso la Chiesa di Santa Lucia alla Badia, dove poteva essere ammirato dai turisti, ma presso Santa Lucia del Sepolcro, alla Borgata, dove avvenne il martirio, testimoniato da una colonna infame, poco frequentata, perché fuori mano e, a molti, sconosciuta.
Il linguaggio utilizzato da Caravaggio, nel descrivere il supplizio della Santa, è di una violenza estrema, tanto che Sgarbi non parla di martirio, ma di assassinio, non di pala di altare, bensì di un documento che ricorda certi accadimenti della cronaca del secondo Novecento. Il dipinto, riconosciuto da Longhi nella mostra da lui organizzata, nel 1951, al Palazzo Reale di Milano, è ambientato, secondo Sgarbi, presso le Latomie che Caravaggio ebbe modo di visitare, durante la sua permanenza a Siracusa. Il motivo è da ricercare nello “spazio cieco, in quel suo buio che ci introduce e ci incammina nel cretto di Burri come nell’inferno”, ovvero in una materia che soffre, per mancanza d’aria, tanto da soffocare, non si tratta di pittura, quindi, ma “di lacerazione, di ferita della materia”.
Attenzione al linguaggio critico di Sgarbi, un linguaggio, spesso violento, come certe sue invettive politiche perché, nell’uccisione di Santa Lucia, col suo corpo violentato e martoriato, non può non vedersi, a suo avviso, una prefigurazione del corpo straziato di Pasolini, come a dire che “la macerazione della carne” non è sottoposta a tempi prestabiliti, specie quando ha a che fare con la terra e con la polvere.
Questa sua tesi l’avevo ascoltata al Teatro Carcano, quando sentii una specie di reazione da parte del pubblico che, però, apprezzò, sia le qualità fonetiche che il gusto combinatorio di Sgarbi, dovuto alle continue citazioni, come quella di Leporello nel “Don Giovanni” di Mozart: “Ah patron siam tutti morti”, nel momento in cui egli affronta il problema della morte e della resurrezione in Caravaggio. In questo senso, la pittura diventa fotografia, ovvero ricerca dell’istante di verità, di realtà, decisivo, non solo per il pittore, non certo classico, né manierista, ma anche per fotografi come Cartier Bresson o Robert Capa di cui cita “Il miliziano morente”, un’icona della nostra epoca, dove Capa è riuscito a cogliere il momento della caduta del miliziano, così come Caravaggio riesce a cogliere i momenti salienti dei suoi protagonisti che coincidono con la verità dei particolari che si fa sempre più evidente lungo gli anni che dal “Fanciullo con canestro di frutta”, il cui viso è paragonato a quello giovane di Ninetto Davoli, anche perché i modelli caravaggeschi riguardano i ragazzi di strada, al “ Bacchino malato”, più simile a Franco Citti, ai ragazzi protagonisti di “I musici”.
Sgarbi accompagna il lettore in suo particolare spazio museale, grazie anche alla ricca iconografia presente nel volume, trasferendolo nei luoghi dove si possono ammirare “Il riposo durante la fuga d’Egitto” con la Madonna “che crolla di stanchezza”, ai capolavori come “ La Maddalena penitente”, “Giuditta e Oloferne”, ”La vocazione di San Matteo”, e il suo martirio, preludio alla “Conversione di San Paolo”, alla “Crocifissione di san Pietro”, alla “Decollazione del Battista” e al “Seppellimento di Santa Lucia”, che ripete e raddoppia il dramma della “Decollazione”.
Un post-scriptum è dedicato alle due Cene di Emmaus, quella di Londra e quella di Brera, che documentano ancora come l’Arte non sia da intendere come illustrazione, ma come specchio dell’animo dell’artista.
Per chi voglia approfondire, invito a leggere: “Vittorio Sgarbi: Ecce Caravaggio. Da Roberto Longhi a oggi”, La Nave di Teseo, un altro viaggio avventuroso per meglio conoscere gli studi che hanno accompagnato la riscoperta di Caravaggio fin dagli anni Cinquanta.
Vittorio Sgarbi, “Caravaggio. Il punto di vista del cavallo”, La Nave di Teseo 2021, pp. 146, € 19.
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