MILANO, venerdì 16 novembre ► (di Paolo A. Paganini) Non ebbe speciali riconoscimenti in vita, e del suo vasto mondo pittorico non riuscì, o non volle, mai vendere nessuna delle sue opere. Vincent Van Gogh (1853-1890), uno dei più fondamentali artisti della pittura mondiale, dopo un periodo iniziale dedicato alle tragiche esistenze di operai e contadini (vivendo e condividendo la loro miserabile esistenza, dormendo sulla paglia in casolari abbandonati), si dedicò, ai paesaggi, alle nature morte, ai ritratti, agli alberi tormentati (come la sua vita), ai cieli azzurri, ai cipressi, ai campi di grano e di girasoli, con una fisicità che rifletteva l’angoscia, la passione e l’amore per la natura e per la réalité. Ma anche perdendosi in un inferno di eccessi, che spinsero gli imbarazzati abitanti di Arles a sottoscrivere una petizione per toglierselo dai piedi e farlo internare nell’ospedale psichiatrico di Saint-Paul-de-Mausole, a Saint-Rémy-de-Provence, dove venne effettivamente ricoverato poco dopo e dove visse disperate allucinazioni e strazi dell’anima “in una malinconia attiva anziché abbandonarmi alla disperazione”, dirà più tardi. E a questo periodo di internamento e di crisi risalgono infatti 140 dipinti.
Dei suoi tormenti interiori, affidati all’anima dei suoi quadri, sgargianti di colori, di neri, di rossi, di gialli, sono rimasti quasi 900 dipinti, più di 1000 disegni, e un’infinità di schizzi e appunti.
E soprattutto sono rimaste le “Lettere a Theo”, la maggiore fonte di notizie per la comprensione della vita, del pensiero e delle teorie d’arte di Van Gogh. Sono centinaia di lettere che, tra il 1872 e il 1890, si scambiarono Vincent e il fratello minore Theo, che gli fu sempre vicino, anche finanziariamente, per tutta la vita. Che Vincent mise fine, a soli 37 anni, con un colpo di pistola.
Portare sulle scene la vita di Van Gogh (per la cronaca, sul grande schermo apparve in una trentina di film) sarebbe di per sé un’avventura folle, come la vita dell’allucinato pittore, con i suoi fantasmi, le sue sanguinarie crisi (l’orecchio mozzato), le sue incontrollate violenze (specie sull’innocente amico Gauguin), i suoi molti viaggi, le crisi religiose e “monastiche”, la sua vita con la una prostituta, l’indigenza, le malattie (la gonorrea). Tutto trasfigurato nella sovrumana grandezza della sua arte, pur fra le mura d’un ospedale psichiatrico.
Impossibile dedicare spazi scenici a tutto ciò in un’ora e mezza.
E allora bene ha fatto Stefano Massini, al Teattro Manzoni, con lo spettacolo “Vincent Va Gogh – L’odore assordante del bianco”, dove ha fatto convergere drammaturgicamente, nell’unico tragico grumo psichico d’una allucinata esistenza, il 1889, tutto il dramma di Vincent. Il pittore, con tutte le sue forze, desiderò invano di uscire dal “bianco” clinico dei camici e delle mura del manicomio.
In un’ora e 25, si sovrappongono sincronicamente storie, ricordi, incontri, esperienze di vita ospedaliera, ostilità di beceri infermieri e di ottusi medici, e rapporti di amicizia e comprensione, di altri medici che pur l’aiutarono. Come la bellissima intensa partecipazione di Francesco Biscione, nel ruolo del dottor Peyron (che forse adombra una reale presenza nella vita di Vincent, il dottor Ferdinand Gachet, omeopata, darwinista, socialista, libero pensatore ed esperto di psichiatria, anche nelle forme più innovative, e che si prese cura di Vencent solo nel 1890, e di lui rimane “Ritratto del dottor Gachet”, venduto all’asta nel 1990 per più di 80 milioni di dollari. E pensare che Van Gogh morì in miseria!).
Ma le commistioni di Massini sono affascinanti e d’intensa commozione, umana e poetica, pur perdendo qua e là le connotazioni della realtà o della finzione. E cosa ce ne importa? Il testo è dolorosamente affascinante. È bello, drammaturgicamente corretto, e fedele allo spirito, ai caratteri e alla storia di Vincent Van Gogh, con Alessandro Preziosi nella camicia di forza di Vincent Van Gogh: una superba prova d’intensa partecipazione, sofferta, trascinante, commovente. Indimenticabile.
Ma tutto lo staff attoriale è all’altezza di questo affascinante dramma: dalla presenza del vanesio dottor Vernon Lazàre (Roberto Manzi) e degli ottusi infermieri di contorno, finti o storicamente allusivi che siano (Alessio Genchi e Vincenzo Zampa). E poi Massimo Nicolini, nel ruolo umanissino del fratello Theo, che cerca d’aiutare Vincent a uscire dalle nebbie della psiche, in una sofferta angoscia d’umana inutilità, che ricorda tanti casi d’affetto e d’angoscia quando ci si sente impotenti davanti a un proprio caro ammalato.
E poi entrano, di riflesso, l’incomprensione pretesca per un presunto possesso demoniaco (“Satana ha una tana nella testa degli indemoniati”), e le coercitive brutalità delle “cure ” ospedaliere, i letti di contenzione, le camicie di forza, i debilitanti bagni prolungati per ore nelle vasche di acqua calda.
Ma anche si disquisisce e si ragiona sui valori dell’arte, sul significato di realtà (“Ce n’è una sola, quella che va dal mio pensiero alla punta del pennello”), sulla capacità consolatoria della parola.
Bene. Entusiasmo e grandi applausi alla fine per tutti, con una meritata sottolineatura alla suggestiva regia di Alessandro Maggi (anche se risulta un po’ forzato il suo tentativo di alleggerimento con qualche concessione di colore macchiettistico).
Si replica fino a domenica 2 dicembre.