(di Patrizia Pedrazzini) Ken Loach, 83 anni e un’intera vita cinematografica spesa nella rappresentazione delle condizioni di vita dei ceti meno abbienti. I suoi film, praticamente nessuno escluso, sono sempre occasioni per mettere sul banco degli imputati la società borghese, e capitalistica, che strangola e opprime gli stessi uomini e le stesse donne che pure sfrutta. I suoi personaggi sono persone che lavorano, che cercano un riscatto sociale, serie, determinate, responsabili, spesso caratterizzate da grande forza d’animo e spirito di sacrificio. In netta contrapposizione con il mondo cinico, indifferente ed egoista con il quale sono costrette a fare i conti.
“Sorry We Missed You”, ultimo lavoro del regista (attivista e politico) britannico figlio dell’Inghilterra operaia (e due Palme d’Oro a Cannes, nel 2006 e nel 2016, per “Il vento che accarezza l’erba” e “Io, Daniel Blake”), non fa eccezione. Già dal titolo (“Scusate, non vi abbiamo trovato”), letteralmente tratto dalla frase standard stampata sugli avvisi di consegna che i corrieri lasciano ai destinatari dei pacchi che non trovano in casa, l’ambientazione è chiara.
Newcastle. Dopo il crollo finanziario del 2008, Ricky e Abby, fattorino mal pagato lui e badante a domicilio lei, si arrabattano come possono per far quadrare i conti. Hanno due figli, una bambina di dieci anni e un maschio di 15 appassionato di graffiti e in piena crisi adolescenziale. La famigliola è unita e, nonostante tutto, serena. I genitori non fanno mancare ai ragazzi né l’affetto né, compatibilmente con gli orari di lavoro, la presenza e il sostegno per i loro piccoli grandi guai quotidiani. Finché un’allettante opportunità irrompe nelle loro vite: se Abby vende l’auto, che pure le serve per spostarsi da un assistito all’altro, Ricky può acquistare un furgone, con il quale lavorare come corriere per una ditta di franchise. Sembra tutto facile, Ricky poi è uno stakhanovista, ha fatto di tutto nella vita, e non si tira indietro davanti a niente, pur di guadagnare. Ma non funziona così.
Il conto arriva presto, e si chiama concorrenza selvaggia, 14 ore al giorno al volante, pressione psicologica, stanchezza fisica. Il mercato conosce una sola legge: ridurre i costi e ottimizzare i profitti. E il suo dio si chiama “lettore di codici a barre”: è lui che comanda sul furgone, che governa l’intero processo, che riferisce tutte le informazioni, soste e ritardi compresi, al capo che sta in ufficio. Cosa potrebbe mai importargli della qualità della vita di Ricky?
E allora non basta che il grande cuore di Abby, nelle cui vene scorre il raro sentimento della compassione (davvero esemplari la grazia, il rispetto e la dignità che mette nel suo non facile lavoro), cerchi di opporsi a tutto questo. Il figlio inizia a combinare guai a scuola, a frequentare cattive compagnie e a non rispettare più il padre. La figlia, bisognosa come mai di pace familiare, diventa debole e insicura. Mentre Ricky incomincia a dubitare di se stesso e delle proprie scelte. Già, ma l’alternativa?
Così il “regista degli invisibili” fa centro un’altra volta. Senza cedere alla commiserazione né tanto meno al populismo, con mano solo apparentemente semplice, in realtà con grande studio e accuratezza, tratteggia i contorni amari di una storia “normale” (seppure di una normalità feroce), di una famiglia che chiunque può sentirsi vicina, di persone perbene alle prese con i problemi di tutti.
Che poi Loach non faccia mai mistero delle proprie idee politiche e non perda occasione per mettere il dito nella piaga dello sfruttamento e delle ingiustizie sociali, può anche apparire l’ennesima occasione per buttarla in politica. Però i suoi “nuovi schiavi” sono veri.
L’amara, e moderna, realtà dei “nuovi schiavi” di Ken Loach. Deboli, precari, sfruttati. Quando il lavoro non nobilita l’uomo
1 Gennaio 2020 by