L’Amleto di Corrado d’Elia: un artificio scenico di vedo e non vedo in spezzoni mentali di psichedeliche allucinazioni

1MILANO, martedì 25 novembre –
(di Paolo A. Paganini) “Amleto”, una delle più affascinanti tragedie di Shakespeare, come tutti i capolavori, densi di stratificate possibilità di lettura, offre svariate occasioni di significati. Il primo, ch’è poi l’ossatura dell’opera, sta nel dover vendicare il padre assassinato, del quale il fratricida usurpò il trono e il letto matrimoniale. L’indecisione nell’azione di Amleto è la tensione morale che ne consegue. Scavando un po’ più a fondo, emerge una più sfumata e non meno colpevole tragedia, artifex semper Amleto, con tutta una serie di conseguenze, che scattano come una nemesi portandosi dietro un lungo corteo di mortali accadimenti.
Per capirci, non soltanto il regicida è colpevole. Anche Amleto con la sua inazione, con i suoi accidiosi tentennamenti, diventa causa di una inarrestabile – ed evitabile – tragedia collettiva intorno all’insanguinato trono di Danimarca. Shakespeare aveva capito subito gli amletici dubbi del suo personaggio, e ne costruì esili giustificazioni: lo spettro del padre assassinato rivelava la verità o era una menzogna allucinatoria della sua fantasia? Partendo da ciò si va avanti in Shakespeare per cinque atti. Ma andando ancora più sotto, emerge un’altra metafora sugli umani destini: a non chiarire, a non affrontare anche sgradevoli verità, a non tagliare subito il bubbone, tutto incancrenisce. Meglio chiarire subito se la tua donna ti cornifica, se l’amico ti tradisce, se il socio ti imbroglia, se un falso maestro ti inganna. La verità fa male, diceva una canzone, ma risolve subito tanti problemi
E così via, di lettura in lettura, di significato in significato.
Orbene, anche Corrado d’Elia, con la compagnia Teatro Libero, ha giocato la sua carta, al Teatro Litta, entro un nudo e angosciante cubo scenico di pannelli, attraverso i quali far scomparire o apparire i vari interpreti, come numeri di magia: buio e apparizioni, buio e sparizioni, e zac, il gioco è fatto.Ecco, la carta di Corrado d’Elia, progettatore regista protagonista, sta tutta qui, in uno stordente artificio, come esplicita manifestazione d’una mente sconvolta, la mente di Amleto nella sua soffocante stanza della memoria, uno sconvolgente incubo senza risveglio, l’incubo di una pazzia.
Qui non ci sono più amletismi. Amleto non finge ingegnosi sotterfugi per spiare, per sapere, per capire. Amleto è veramente schizzato, è davvero fuori di testa.
E la messinscena rende esplicito questo suo disagio mentale, tra esplosione di suoni come cortocircuiti mentali, luci stroboscopiche come spezzoni di neuroni alla deriva, voci gridate come urla di terrore o di dolore o di rabbia. Ma pur sempre un artificio, geniale finché si vuole. Ma mistificatorio. Come tutti gli artifici. Poi, per alleggerire, ci scivola dentro anche il comico. Antica e rispettata tecnica shakespeariana. E i due vecchi amici di gioventù, Rosencrantz e Guildenstern, fan la parte di due comici di varietà, tra sganascioni e qui-pro-quo. Il pubblico ride. E senza riserve apprezza tutta l’operazione drammaturgica. Le riserve sono solo del critico. E, comunque, tanto di cappello per l’interpretazione del re e della regina (quando le compagnie di teatro si degneranno di pubblicare la distribuzione delle parti si potrà doverosamente rimediare alle non colpevoli nostre omissioni), coppia perennemente in fregola, tra baci e struscii, in inesausto satirismo. E almeno citeremo la sobria e superba interpretazione di Gianni Quillico nel ruolo di Polonio.
Fra le tante idee sceniche in una serie a catena di esplosioni sonore e luminose, una fra tutte ci è parsa di una inquietante bellezza, quella specie di epitaffio alla Spoon River, con tutti i morti in una visionaria immagine a memento delle umane follie.

“Amleto”, di Shakespeare/Corrado d’Elia. Al Teatro Litta, Corso Magenta 24, Milano – Durata un’ora e quaranta – Repliche fino a domenica 7 dicembre