L’angoscia disperata di una tragedia che si ripete. Il loop temporale del coreano “A Day”. Colpa, vendetta e perdono

(di Patrizia Pedrazzini) Il loop temporale, altrimenti detto anello temporale, è un espediente narrativo nel quale il protagonista (o i protagonisti) di una vicenda si ritrova suo malgrado a ripetere, e a rivivere, una particolare esperienza, in una sorta di ciclo continuo che può andare avanti anche all’infinito. Nel cinema, viene utilizzato molto nei film di fantascienza, ma non solo. A titolo di esempio, uno per tutti rimane la commedia sentimentale “Ricomincio di capo”, del 1993, con Bill Murray, ma va benissimo anche “Palm Springs – Vivi come se non ci fosse un domani”, del 2020. Passando magari per “Edge of Tomorrow – Senza domani” del 2014, con Tom Cruise. E comunque l’elenco sarebbe cospicuo.
Ora, di questo tema che evidentemente fatica a passare di moda deve essersi recentemente innamorato anche il regista sudcoreano Cho-Sun-ho, che ne ha fatto il perno del proprio esordio cinematografico, “A Day”, realizzato peraltro nel 2017. Solo che lo ha fatto, un po’ per scelta un po’ perché la Corea non è Hollywood, “alla coreana”. Confezionando novanta minuti di angoscia disperata nei quali la medesima scena viene riproposta allo spettatore decine di volte, all’apparentemente vana ricerca di qualcosa, o di qualcuno, che riesca a modificare, anticipandolo, il corso del destino.
La storia. Kim è un cardiochirurgo di fama, dedito anima e corpo al proprio lavoro, disponibile, umano e generoso. Il che lo porta tuttavia, inevitabilmente, a trascurare la giovane figlia Eun-Jung, che infatti non perde occasione per rimproverarglielo. Di ritorno a Seul da un viaggio di lavoro, le promette di raggiungerla dopo la scuola per festeggiare insieme il compleanno di lei. Ma fa solo in tempo a incrociare, in macchina, il luogo di un incidente nel quale proprio la figlia, che stava attraversando la strada per andare all’appuntamento col padre, è stata investita, e uccisa, da un taxi. Kim riesce appena a realizzare quanto accaduto che immediatamente si risveglia, come da un incubo, di nuovo sull’aereo. E qui comincia l’incubo vero.
Come impedire la morte della bambina? L’uomo le prova tutte: correre più veloce in auto, telefonare alla figlia, bloccare il tassista, spostare il luogo dell’appuntamento, ma ogni volta la medesima scena si ripete, con il suo carico di dolore e di senso di impotenza. Niente da fare. Ma forse non è una questione di tempi, e nemmeno di luoghi. Forse c’entra il perché della tragedia. Già, perché proprio quel tassista, a quell’ora, a quell’incrocio? E, soprattutto, perché proprio Eun-Jung?
Tanta suspence e tensione drammatica abbastanza alle stelle, per il breve racconto di una giornata terribile che tuttavia, nella seconda parte del film, rischia, per il ritmo frenetico con il quale viene continuamente riproposta, di apparire confusa e disordinata, oltre che insopportabile. Ci penseranno i temi e le riflessioni etiche di sempre – la vita e la morte, il bene e il male, il peccato e l’espiazione, la colpa, la vendetta e il perdono – a rimettere in ordine tutto. E a dare un senso a un film che, come nella migliore tradizione coreana, utilizza un pretesto per condurre lo spettatore verso lidi, e anfratti dell’anima, lontani e spesso oscuri.