L’Archivio Marubi. Alla Triennale 170 foto di vita albanese fra Ottocento e Novecento. Quando il ritratto diventa un rito

Gegë Marubi, Teofik Puka, 1932

MILANO, sabato 17 novembre (di Patrizia Pedrazzini) Quella dell’Archivio fotografico Marubi è una storia albanese. Anzi, italo-albanese. Perché fu l’originaria, padana città di Piacenza, che Pietro Marubbi lasciò, ventenne, nel lontano 1856 per trasferirsi a Scutari, nell’ottomana Albania. Dove, innamorato com’era della fotografia, aprì uno studio, non tanto per realizzare immagini “esotiche”, quanto per dare la possibilità, a chiunque passasse di lì, di farsi ritrarre. Non ebbe mai figli, però, Pietro, per cui la sua passione venne portata avanti dagli allievi: prima Kel Kadheli, poi il figlio di lui Gegӫ.
Intanto Marubbi era diventato Marubi, e altri autori avevano aperto atelier fotografici. Finché nel 1970, in seguito all’affermarsi del Comunismo (con le centralizzazioni, le persecuzioni, la riforma agraria e la nazionalizzazione dell’industria), Gegӫ, non potendo più garantire la continuità e la conservazione del fondo, donò l’intero archivio allo Stato. E altrettanto fecero gli altri studi.
Oggi Il Museo Marubi di Scutari, primo museo albanese di fotografia, ha un patrimonio di oltre 500 mila negativi in lastre di vetro e pellicole realizzati fra la metà dell’Ottocento e la fine del Novecento.
Vengono da qui i quasi 170 ritratti che, negli spazi della Triennale fino al 9 dicembre, raccontano la storia e la quotidianità di un’Albania che non tornerà mai più. Intere famiglie, singoli cittadini, militari, politici, commercianti. Bambini, adulti, vecchi. Mute (ma solo apparentemente) testimonianze dell’amore, della morte, della malattia, della pazzia. Tutti diligentemente in posa davanti all’obbiettivo, i vestiti giusti, i gesti curati, le espressioni adeguate.

Kel Marubi, Kel Marubi con la famiglia

Un rito, carico di valore simbolico, perché quello che rimane, dopo quello scatto, non è il ricordo fuggevole di un momento, ma l’immagine durevole, nel tempo, di un attimo di vita. Per cui è necessario farsi immobili, come una statua antica.
Ecco allora i visi assorti, seri, quasi privi di emozioni. Perché così richiedevano il fotografo, e l’importanza del momento. Coppie di sposi, famiglie numerose (ma nemmeno i bambini sorridono), gruppi di uomini e gruppi di donne, visi velati, paesaggi, un cane.
Immagini da un mondo? Forse.
Più che altro, immagini dalle quali ricavare frammenti di un mondo lontano.
Altri tempi. Altre persone. E altre foto.

“L’Archivio Marubi. Il rituale fotografico”, Milano, Triennale, fino al 9 dicembre 2018
www.triennale.org