(di Patrizia Pedrazzini) Quali sono le battaglie che veramente contano, nella vita? Quali ha senso vincere, se poi magari si perde la guerra? Ma, soprattutto, è consentito alzare bandiera bianca, o bisogna combattere a oltranza? “Le nostre battaglie” (“Nos batailles”), secondo lungometraggio (dopo “Keeper”) del regista franco-belga Guillaume Senez, racconta le sfide cui è chiamato Olivier (un bravissimo Romain Duris), caporeparto in un’azienda che opera nel campo della grande distribuzione (e che evoca tanto Amazon), impegnato nel sindacato, marito e padre affettuoso, ancorché poco presente, per via del lavoro. Niente di eclatante, se non fosse che l’uomo non si accorge, preso com’è dalle proprie “battaglie” umane e lavorative (tra le quali il recente suicidio di un collega, che non ha retto al licenziamento) che la moglie, Laura, sta male. Fagocitata da una vita tutta incentrata sui figli ancora piccoli e sulla famiglia, che poco o niente le concede in termini di soddisfazioni personali, la donna lotta da tempo, segretamente, contro un inizio di depressione. Finché una mattina, senza un cenno, un gesto, un’avvisaglia, una lettera, scompare. A nulla portano le telefonate ai parenti, agli amici, agli ospedali, alla polizia. Da casa mancano vestiti e oggetti: Laura se n’è andata.
E allora le battaglie che Olivier deve affrontare non sono più e solo quelle lavorative, che pure non trascura, ma sono anche quelle con e per i due figli (un maschio e una femmina, profondamente turbati dall’allontanamento della madre), che l’uomo accudisce come meglio può, ma che capisce presto di non conoscere: qual è la maglietta giusta per andare a scuola, e la favola da leggere la sera, e che cosa mangiano i bambini a colazione? E quelle con se stesso, con la propria distrazione, le domande, i sensi di colpa, la rabbia. E quella, invisibile, con la moglie, che li ha lasciati in quella situazione, che manda una cartolina ai piccoli da una cittadina sulla Manica dove si è andata a rifugiare: spera tanto di riuscire a tornare e di poterli riabbracciare, ma per il marito nemmeno una parola.
Sono tante, e su più fronti, le battaglie che Olivier deve sostenere, ma è su quella più grande, quella della libertà personale nel vivere quotidiano, che si può perdere la guerra. E Olivier questo lo capisce: è un uomo perbene, di quelli che non si tirano indietro, conosce le proprie priorità, e sa rimboccarsi le maniche.
Equilibrato, gentile, rispettoso, semplicemente realistico nella sua naturale onestà, senza la minima concessione a patetismi o accenni di retorica, il film di Senez evoca la discreta misura delle pellicole dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne, la loro capacità di tratteggiare un quadro sociale e umano con pochi, semplici, essenziali elementi. Sostenuto in questo, oltre che dalla scelta di lasciare fuori campo le azioni portanti del film (delle quali si vedono, o si percepiscono, solo gli effetti), dalla presenza di figure femminili semplici e positive, solo apparentemente secondarie, in realtà punti fermi nella vita di Olivier. Tanto fermi, e forti, da consentirgli di non perdere, nell’emergenza, la lucidità: la madre, attenta e discreta, che aiuta e non giudica, tuttavia sprona il figlio alla riflessione; la sorella, fragile ed entusiasta, zia amorevole che non si nega ma nemmeno si annulla, riuscendo anche, con dolcezza, a far sì che il fratello non si arrocchi senza farsi domande dalla parte della ragione; la collega sindacalista, non più giovanissima, single, una vita spesa nei problemi della fabbrica, e con la quale Olivier ha la fugace storia di una sera, vissuta in amicizia e quasi solidarietà. E poi c’è Laura, la moglie, che non c’è, se non nelle prime inquadrature, ma la cui silenziosa assenza ne fa una delle presenze più forti di tutto il film.
Fino alla conclusione, repentina, radicale, inattesa, eppure così naturale. In nome del rispetto, e della libertà.