(di Patrizia Pedrazzini) “Fai attenzione: oggi la corrente va verso Sud”. Incomincia così, con le parole di una sentinella a un posto di guardia sul fiume, l’incubo peggiore di Nam Chul-woo, povero pescatore che vive, con la moglie e la loro bambina, in un modesto villaggio della Corea del Nord molto vicino alla linea di confine con la Corea del Sud. Nam a fare attenzione è abituato: lo sa benissimo che con la corrente non si scherza e che basta una svista, una leggerezza, per ritrovarsi in acque “nemiche”. Però sa il fatto suo, e poi deve pescare, altrimenti come vive? Ma la rete si impiglia nell’elica, il motore si blocca e, nonostante i vani tentativi di un Nam sempre più disperato, il fiume trascina inesorabilmente la piccola barca dove vuole. Verso Sud.
Ce la farà, il povero pescatore, pressato e martoriato da brutali interrogatori, a convincere la Polizia sudcoreana di non essere una spia? E, ancora peggio, una volta tornato a casa, ce la farà, dopo pressanti (e assai simili) interrogatori, a convincere la Polizia nordcoreana di essere rimasto un bravo cittadino devoto al Regime, di non essersi fatto contaminare dall’infezione del capitalismo? E come ne uscirà, se ne uscirà, come uomo?
Il sudcoreano Kim Ki-duk ha firmato film quali “L’isola” (2000), “La Samaritana” (2004, Orso d’argento a Berlino), “Ferro 3 – La casa vuota” (2004, Leone d’argento a Venezia), “Pietà” (2012, Leone d’oro a Venezia), il censuratissimo, in patria, “Moebius” (2013). Ma con “il prigioniero coreano”, del quale ha curato regia, sceneggiatura e fotografia, sembra prendere le distanze dai precedenti lavori. O quanto meno dall’aspetto più visionario e “astratto” che li ha caratterizzati, alcuni soprattutto. Ma non dalla durezza delle tematiche scelte, dalla violenza proposta in maniera fredda, quasi naturale, quasi parte ineludibile della vita e dell’animo umano. In questo suo ultimo lungometraggio, al di là della figura del pescatore Nam (un ottimo Ryoo Seung-bum), sono le due Coree, con i loro mali, le loro storture assolutamente speculari, la loro mancanza (con la sola eccezione di un giovane poliziotto sudcoreano) di comprensione e di umanità, le vere protagoniste. E nessuna delle due si salva, né quella del Nord, ottusamente e ferocemente anticapitalistica e antiliberale, né quella del Sud, fortemente anticomunista e terrorizzata dalla presenza, oltreconfine, di un regime assoluto. Due realtà opposte, ma dalla stessa anima. Davanti alle quali l’uomo, il povero pescatore onesto, leale, ingenuo ma non inconsapevole della propria dignità, non può che soccombere.
“Il prigioniero coreano” è un film angosciante, tristissimo, un ritratto senza speranza. Un film scomodo, in questo senso. E che non fa sconti. A nessuno dei due “contendenti”. Perché Nam, che pure, una volta “liberato” per le strade di Seul nella speranza che si innamori della libertà (e della ricchezza) del Paese e decida di non tornare più a casa, all’inizio si forza di tenere gli occhi chiusi, per non vedere niente, pena fare la figura del traditore davanti ai compatrioti del Nord, ma quando alla fine li apre, gli occhi, vede non solo i bei negozi, ma anche i segni deteriori della società, a partire dalla prostituzione e dalle ingiustizie sociali. E allora se la fa, la domanda: ma che cos’è questa democrazia? Per risposta avrà una frase bella e inesorabile: “Più forte è la luce, più grande è l’ombra”. Ma l’uomo? Quanto conta, ammesso che conti, in questo gioco di luci e ombre? Qual è il suo posto? Quanto vale la sua vita? Kim Ki-duk la domanda la pone ma, purtroppo, dà anche la risposta.
Un thriller dell’anima. Spietato, disilluso, cattivo. Di quelli che non si ha il cuore di rivedere. Ma che, almeno una volta, bisognerebbe vedere.
Le due Coree, così diverse, così uguali. E, in mezzo, la vita di un povero, ingenuo pescatore. Che può solo soccombere
11 Aprile 2018 by