(di Marisa Marzelli) Nelle primissime inquadrature un cinquantenne (Pierfrancesco Favino) di spalle guarda il cielo illuminato dai fuochi d’artificio; gli si avvicina una ragazza molto giovane e, dai gesti, si capisce che tra i due c’è grande confidenza. In sottofondo, rumori di una festa. Lo spettatore dà a questa immagine fuori contesto un determinato significato; ma, riproposta verso la fine, la scena ne assumerà uno diverso: sono padre e figlia. È solo un piccolo esempio dell’abilità cinematografica di Gabriele Muccino, alla quale non corrisponde altrettanta creatività autoriale.
Muccino nel suo cinema (la parentesi americana ne ha affinato l’aspetto tecnico) rubacchia, cita, camuffa tutto ciò che può e sa confezionare film di impatto sentimentale sul pubblico popolare. Con scaltrezza costruisce emozioni e riesce a commuovere gli spettatori facendo credere che sta parlando proprio di loro e delle loro vite. È questo il pregio e insieme il limite dei suoi film.
A due anni dal successo di A casa tutti bene, che incassò oltre 8 milioni di euro, il regista romano torna con Gli anni più belli (da lui co-sceneggiato con Paolo Costella), ancora un film corale, con l’ambizione di coniugare il bilancio di quarant’anni di esistenza di quattro amici con la Storia del Paese.
Anche se l’autore ammette nelle interviste di essersi ispirato a C’eravamo tanto amati (1974, con Manfredi, Gassman, Stefano Satta Flores e Stefania Sandrelli), uno dei capisaldi di Ettore Scola e della commedia all’italiana, quasi nessuno se ne accorge, perché le generazioni cambiano e oggi conoscere – almeno un po’ – la storia del cinema è un optional trascurabile. Del resto, se la trama ricalca quasi pedissequamente C’eravamo tanto amati, ci sono molti altri titoli che mettono a confronto vicende individuali con gli avvenimenti politici e sociali dell’epoca. Ma nel caso de Gli anni più belli questo secondo aspetto risulta marginale rispetto all’evoluzione dei personaggi. Manca la profondità di una riflessione più articolata.
Giulio (Pierfrancesco Favino), Paolo (Kim Rossi Stuart) e Riccardo (Claudio Santamaria) sono amici da quando avevano 16 anni e i primi due avevano soccorso il terzo durante i disordini di piazza e una carica della polizia. A loro si era aggiunta Gemma (Michaela Ramazzotti), il colpo di fulmine per Rossi Stuart. Tutti usciti dalla classe popolare romana, avranno destini diversi. Favino diventa avvocato di grido all’ombra di un ministro faccendiere (sposandone la figlia dopo aver mollato la Ramazzotti, che ha sottratto all’amore di Rossi Stuart); Santamaria torma a produrre olio in campagna dopo il fallimento delle velleità prima di giornalista e poi di politico onesto espresso dalla base; Rossi Stuart, dopo anni di precariato, diventa insegnante di ruolo in un prestigioso liceo e ritrova la mai dimenticata Ramazzotti. Favino rappresenta i principi traditi per il benessere, Santamaria l’incapacità di trovare concretamente una strada, Rossi Stuart, il più coerente, sa tener fede ai propri ideali. Dopo essersi più volte persi di vista e ritrovati per coincidenza, tireranno le somme con il trionfo dell’amicizia e un brindisi “alle cose che ci fanno stare bene”. Finale ottimista, un “volemose bene” che concilia tutti, spettatori compresi.
Intanto sfilano, in immagini tv, la coda degli Anni di piombo, la caduta del Muro di Berlino, l’ascesa del berlusconismo, Mani Pulite, l’11 settembre, fino agli esordi del Movimento 5 Stelle. Ma i protagonisti del film, con i loro problemi familiari e professionali, matrimoni a rotoli e figli che crescono, sono troppo presi a sopravvivere per pensare che ci sia un legame stretto tra “il pubblico” e “il privato”, come si diceva una volta. Cercano solo di acchiappare l’opportunità giusta.
In oltre due ore che scorrono rapide Muccino inserisce continue svolte del plot e avvolge il tutto con musiche accattivanti: due brani famosi di Baglioni, più un inedito sui titoli di coda, e colonna sonora del premio Oscar Nicola Piovani. Per non dover spiegare ogni passaggio con le immagini adotta l’escamotage di far guardare in macchina i protagonisti che, rivolgendosi direttamente alla platea, la risucchiano nel racconto, abbattendo come a teatro la quarta parete.
La psicologia dei personaggi a volte latita ma la regia si affida al carisma del cast (comprendente anche la cantante Emma Marrone, al debutto come attrice, e Nicoletta Romanoff) dove Kim Rossi Stuart, a mio parere, risulta il migliore anche se è quello che recita più sottotono. Perché invece spesso si va sopra le righe, soprattutto lo fa Michaela Ramazzotti. E il reparto femminile è il più strapazzato dalla sceneggiatura: se non sono leggere e capricciose sono arpie. In controtendenza rispetto al cinema oggi più à la page, che punta su autodeterminazione e forza del femminile. Molto somiglianti ai personaggi da adulti e ben scelti i quattro ragazzi che incarnano i protagonisti da adolescenti.
In un eccesso di entusiasmo nel rendere omaggio al grande cinema italiano del passato, Muccino si concede anche una scena in cui Santamaria e la Ramazzotti fanno una passeggiatina a mollo nella fontana di Trevi. Meno male che un perplesso Rossi Stuart stempera con ironia l’impatto, commentando che mancano solo Anita Ekberg e Mastroianni.