8 LUGLIO 2014
(di Andrea Bisicchia) Ho conosciuto Alessandro Fersen (1911-2001) nel 1972, in occasione della messinscena di “EDIPO”, al teatro greco di Siracusa,con Glauco Mauri e Valeria Moriconi, una messinscena rigorosa, con il Coro che recitava in lingua greca, mentre due Corifei ne traducevano i versi. Non si trattò di puro intellettualismo, quanto di una scelta che mirava a riproporre il ritmo della lingua originale, oltre che il rituale costruito sulla parola poetica e sulla musicalità della recitazione.
Per anni alternò l’attività di regista con quella del “maestro”, avendo già fondato, nel 1964, lo Studio Fersen, dove si dedicava all’attività di teorico e ricercatore, mettendo a frutto i rapporti di amicizia avuti col filosofo Giorgio Colli e con l’antropologo e studioso delle religioni, Alfonso Di Nola. Dagli anni 80, Fersen iniziò a scrivere i suoi saggi sul teatro, il primo dei quali, verrà pubblicato col titolo”Il teatro, dopo” (Laterza, 1980), mentre gli altri saranno pubblicati postumi , grazie all’interesse di Clemente Tafuri e David Beronio, ai quali dobbiamo la cura di due volumi: “L’universo come gioco” e “Critica del teatro puro”, editi, entrambi, da AkropolisLibri, ai quali Fersen ha lavorato per oltre vent’anni, inserendosi, da protagonista, in quella linea di ricerca che vedeva impegnati personalità come Grotowski, Brook, Barba,tutti attenti alla formulazione di un “Teatro puro” che, per Fersen, coincideva con la struttura interiore dell’attore, fondata su canoni che appartenevano al Rito, la cui persistenza, nel teatro moderno, andava connaturata all’evento scenico.
L’individuazione della “categoria pura”, per Fersen, riaprì potenti prospettive sul rapporto rituale fra l’uomo e il mondo, per pervenire alle quali, egli conduce il lettore in un lungo viaggio che parte dalle origini, attraverso lo studio di multiformi ritualità, legate alla rappresentazione, passate dalla sfera religiosa e sacrale a quella laica, perché attinenti ai comportamenti umani, dato che il rito appartiene alla collettività, il cui carattere iterativo è frutto della memoria. Non per nulla, la tecnica inventata da Fersen è quella del “Mnemodramma”,ovvero della “Psicoscenica”, suffragata dalla ricerca antropologica, col contributo di altre discipline, visto che il linguaggio del rito, è una sequenza di stimoli ritmici, visivi, gestuali, vocali, verbali, tutti tesi a provocare il coinvolgimento fisico e psichico del “celebrante”.
Per Fersen, la spontaneità emotiva va confrontata con una tecnica alta, capace di indirizzare lo slancio interpretativo verso l’alveo rituale. Non c’è dubbio che il rito possa alterare i comportamenti e, quindi, anche l’identità, indirizzandola verso forme di “trance” che permetterebbero il trasferimento dell’Io in una realtà trascendente che potrebbe, a sua volta, avvenire in due modi, come trasferimento dell’uomo verso il divino, oppure come trasmigrazione del divino verso l’uomo. Fersen non ha dubbi sulle origini teatrali del rito, fino a capovolgere la formula, secondo la quale, il teatro doveva avere origini rituali.
Alessandro Fersen,”CRITICA DEL TEATRO PURO”, AkropolisLibri, pp 484, euro 18
Le sequenze ritmico gestuali, laico religiose, del “rito” teatrale, secondo le concezioni di Alessandro Fersen
8 Luglio 2014 by