MILANO, mercoledì 25 febbraio ●
(di Paolo A. Paganini) Il “Re Lear” di Shakespeare, interpretato da Michele Placido (anche regia con Francesco Manetti), riporta una traccia di sottotitolo, che spiega ma distorce: “Un doloroso percorso di conoscenza e verità fino alla follia”. Ma dovrebbe essere il contrario: “Un doloroso percorso di follia fino alla conoscenza e alla verità”.
È folle Lear a disfarsi del regno. Folle a dividerlo fra le due figlie indegne, Gonerill (Marta Nuti) e Regan (Maria Chiara Augenti), eredi solo per ripicca senile in una cretina gara di chi gli dichiara maggiore amore, e punisce invece e rinnega la figlia Cordelia (Federica Vincenti), l’unica ad essere sincera e rispettosa, tanto da non usare ipocritamente parole edulcorate più di quanto non esigesse il proprio amore di figlia. Folle a pretendere di conservare, per la propria dignità di re senza valore, i suoi cento soldati di scorta, facili alla gozzoviglia. Ed ancora, folle a illudersi di poter soggiornare a turno nei palazzi delle figlie beneficiate per il resto dei suoi giorni, quando invece dovrà provare l’offesa e la vergogna di andarsene, povero, lacero e ramingo con la sola compagnia del Matto (Brenno Placido).
Fine della prima follia.
Veniamo alla seconda follia.
Il fedele e stordito Gloucester (Peppe Bisogno) è folle a credere nella lealtà e buonafede del figlio bastardo, l’infido Edmund (Giulio Forges Davanzati), che mira a impossessarsi dei privilegi paterni (e ci riuscirà) e trama nei confronti del mite, buono e rispettoso figlio legittimo, Edgard (Francesco Bonomo), costretto a fuggire, braccato come un traditore. Folle a continuare a fidarsi del perfido, cinico, delatore Edmund, che infine lo tradirà. Torturato e accecato, solo il figlio rinnegato, il pietoso Edgard, lo condurrà per mano verso le alte scogliere da dove vorrà precipitare…
Alla fine del doloroso percorso di follia, sia Lear sia Gloucester capiranno la loro stoltezza. Conoscenza e verità. Quanto sangue e dolore costeranno. Quanto ogni uomo sulla faccia della terra dovrà pagare…
E con questo abbiamo accennato alla storia di “Lear”, tragica e maestosa parabola del destino dell’uomo, dei capricci della sorte, dei crolli e dei fallimenti di cui, fra detriti e macerie, è da sempre beffardamente imbastita la tragedia del vivere umano.
Una tragedia, un simbolo, un affresco che nessuno ha mai raccontato al pari di Shakespeare.
Da sempre affascina attori, registi e spettatori. Ha affascinato Glauco Mauri nell’85, lo svedese Dramaten di Ingmar Bergman sempre nell’85; Robert Sturna di Tbilisi (Georgia) nel ’90, Branciaroli nel ’95, la Sinigaglia nel 2003 eccetera. Per non parlare dello storico, insuperabile e insuperato, “Lear” di Strehler degli Anni Settanta.
E veniamo dunque a questo “Lear” di Placido, già presentato nell’agosto 2012 all’Estate Veronese. In scena al Piccolo Teatro Strehler in due tempi (1 ora e 25 e 1 ora e 5), già la scenografia subito svelata in sala anticipa la follia, la tragedia, il crollo dei miti, lo sfacelo della Ragione. Da una parte, il braccio spezzato del David di Michelangelo, dall’altra un’Aquila romana emergente dalle macerie, più in là colonne di cemento armato di inabissate civiltà industriali, più in là ancora una gigantesca corona regale, simbolo ischeletrito d’una storia già finita. Il destino di “Lear” è già segnato. E così sia.
Michele Placido attore e regista. Il primo convince, anche se la pazzia lo rincoglionisce nello sfarfugliare ondivago di una mente ignara d‘ogni buon senso. Ma va bene così. Il secondo, il regista, risente invece del peccato originale di essere nato per uno spettacolo all’aperto, concepito più per stupire e impressionare il colto pubblico e l’inclita guarnigione, con siparietti scenici di fari guida ad inseguire questo o quello, con piccole trovate buffe o comiche o erotiche con femmine regali in fregola punk, con scena finale del martirio di Cordelia assassinata da uomini incappucciati tipo Isis. E il tutto avvolto in un policromo, ancorché interessante, contorno visivo, in una sovrana e disinvolta superficialità, dove emergono per caso dolore, sofferenza, pietà. Ma le torbide atmosfere shakespeariane si disperdono in quella ormai insopportabile commedia all’italiana, dove tutto si degrada nel facile macchiettismo o nell’eccesso dei caratteri. Come il povero Lear, re barbone, che si aggira, spingendo la sua carrozzella da infermo, come con un carrello da supermercato pieno di cenciose masserizie. Per suscitare pietà. Di amore non si può più parlare. Applausi alla fine per tutti, in specie per l’Edgard di Bonomo.
Nota in calce. Quando finirà un’altra follia: l’oscena esibizione di cellulari in accensione, come funeree lampade votive, durante gli spettacoli?