(di Andrea Bisicchia) – Nel 2004, a Recanati, durante un Convegno su Giacomo Leopardi, si discusse sulla dimensione teatrale del suo linguaggio, dopo che Isabella Innamorati aveva curato, qualche anno prima, una edizione critica del suo teatro. Si trattava di inquadrare, storicamente, il “Teatro di poesia”, con inevitabili riferimenti a quello del Manzoni e del Foscolo.
L’amore per il teatro, Leopardi lo manifestò all’età di diciott’anni, quando scrisse un abbozzo di tragedia “Erminia”, a cui faranno seguire altre due tragedie non completate: “Maria Antonietta” e “Telesilla”, mentre, per esteso, scrisse “La virtù indiana” e “Pompeo in Egitto”. Sembra che l’interesse, del giovane Leopardi, fosse rivolto al genere tragico, in un momento in cui, addirittura, parlando di Riforma teatrale, pensava attraverso il teatro a una ipotetica unità nazionale, come si può leggere nel “Discorso sopra lo stato permanente dei costumi degli italiani”, dove scrive: “Non esiste una nazione e, quindi, un pubblico italiano, per non parlare di un teatro nazionale, se non di una letteratura nazionale”, a cui, nello “Zibaldone”, farà seguire sue osservazioni proprio sulla crisi della drammaturgia.
Certo, oggi, sarebbe inopportuno, se non per motivi di studio, proporre sulla scena, le sue tragedie, al contrario ravvisando, nelle “Operette morali”, una dimensione teatrale, Mario Martone, con la collaborazione di Ippolita Di Majo, pensò di curarne una versione scenica, prodotta dal Teatro Nazionale Stabile di Torino. Il debutto avvenne al Teatro Gobetti (17-3- 2011), in uno spazio ricreato dallo stesso Martone, avendo trasformato la sala, con la pianta centrale a disposizione degli attori, e con il pubblico posizionato frontalmente. Non si pensava allo straordinario successo, tanto che il Teatro Stabile si convinse a produrre lo spettacolo per ben tre Stagioni, benché in una versione diversa, quella, per esempio vista dai milanesi al Franco Parenti. Le scene erano di Mimmo Paladino, mentre, per il coro dei morti, nel “Dialogo tra Federico Ruysch e le mummie”, Martone pensò di affidare la parte musicale a Giorgio Battistelli che già si era cimentato col poeta di Recanati, avendo musicato “Giacomo mio salviamoci” su testi di Vittorio Sermonti e installazioni di Studio Azzurro.
L’operazione di Martone e di Ippolita Di Majo è diventata un libro, “Le Operette morali in scena. La teatralità di Giacomo Leopardi”, edito da Mimesis, nella collana Leopardiana, diretta da Gaspare Polizzi, a cui dobbiamo uno studio particolare, “Giacomo Leopardi, la concezione dell’umano tra utopia e disincanto”.
Il volume contiene scritti di Martone e della Di Majo, oltre diciotto Dialoghi su ventiquattro, arricchiti da una iconografia, a colori, che permette la ricostruzione dello spettacolo che, in un primo momento, aveva utilizzato ventidue dialoghi che però avevano reso troppo lunga la durata.
A leggere l’introduzione di Martone, si capisce come il regista, prima o durante, avesse letto l’intera Opera leopardiana, in modo da poter costruire, insieme alla Di Majo, il canovaccio, proiettando la scrittura dialogica di Leopardi verso una forma esplicita di drammatizzazione, evidenziando il gusto della satira, da parte del poeta, che intendeva, il genere, alla maniera antica, ovvero come rappresentazione.
Nello stesso tempo, Martone pensò a un Teatro da camera, in cui ogni cosa venisse evocata come nell’arsenale delle apparizioni dei “Giganti della montagna” di Pirandello. Il regista napoletano, anche per l’uso del ridicolo utilizzato da Leopardi, col quale il poeta riece a introdurre il fantastico, l’irrazionale se non, addirittura, il demoniaco, crede che, nei suoi testi, siano da ricercare degli antefatti che porterebbero, non solo a Pirandello, basterebbe pensare a “L’uomo dal fiore in bocca”, ma anche a Beckett.
Mario Martone, Ippolita Di Majo, “Le Operette Morali in scena. La teatralità di Giacomo Leopardi”, Mimesis Edizioni 2022, pp. 122, € 14.