MILANO, giovedì 16 marzo ► (di Carla Maria Casanova) – Tre belle oracce e 45 minuti di spettacolo che hanno fatto provvidenzialmente anticipare l’inizio alle 19.30.
Les contes d’Hoffmann sono la sola opera seria (opéra fantastique) di Jacques Offenbach, celebre per le sue numerose brillanti operette.
Il musicista morì quattro mesi prima di averla ultimata (1881). Il compito fu assunto dall’amico Ernest Guiraud. La gestazione dell’opera fu assai travagliata ed anche in seguito di questo lavoro ci si permise di tutto: rimozioni, tagli, spostamenti. Spesso, fino a non molto tempo fa, l’opera terminava con l’atto di Antonia. L’edizione scaligera andata in scena ieri sera termina con l’atto di Giulietta, quello della barcarola, l’unico motivo popolare e di cantabilità assai romantica (come vuole lo stesso termine musicale).
Anche la gestazione di questo spettacolo milanese pare abbia subito inenarrabili travagli e che molto sia stato tolto alla struttura scenica (chissà cos’era prima!).
E adesso sorge un problema. Stanotte, tornata dalla Scala dopo le 3 ore ecc. se mi fosse stato chiesto che cosa avevo visto/sentito, non avrei saputo cosa rispondere. Di questi Racconti non mi è rimasto addosso niente. A parte il ritmo della barcarola che si diceva.
Per la messa in scena si è scelta la chiave del musical, avanspettacolo, operetta se preferite. E trattandosi di Offenbach si può capire. Ma questa è un opéra fantastique ed è piuttosto seria, anche se il fantastico si armonizza con il sentimentale, il surreale con il satirico e il grottesco.
Ideatore è Davide Livermore, che in tale guazzabuglio (sfido chiunque a capire l’intreccio) si trova a suo perfetto agio. Dice il regista: “Tanti si lamentano perché i budget a teatro sono limitati, ma fare il teatro non è un problema di budget bensì di idee”. Giustissimo. E lui di idee ne ha un’infinità. Peccato che non riesca a selezionarle: le mette in scena tutte. Con l’aggiunta di altre, ottenendo un assoluto horror vacui. Di questo spettacolo, l’idea che mi rimane in mente è quella, all’inizio del terzo atto, di far stendere sopra gli spettatori della platea un enorme velo fluttuante, come a metterli nel mare (anche in scena c’è il mare). Dura poco perché gli spettatori non sono contenti di stare sotto al velo. Ricordo inoltre l’immissione, tra gli interpreti, di un personaggio diversamente alto (se qualcuno non si è ancora aggiornato, il dizionario dice nano), in smoking luccicante e tuba. Ovviamente non canta, lo si nota perché è diverso e fa scena e Livermore appena può (vedi corte di Mantova in Rigoletto) lo introduce nel cast. Fine.
Non vedo altro degno di nota, tra le immancabili proiezioni, lo sterminio di mimi danzanti in calzamaglia nera, i singolari stupri di gruppo (magari anche solo tra due di cui la donna non è ovviamente d’accordo), i faretti accecanti dritti sulla platea e gli spari: inizia con l’immagine di una rivoltella puntata e poi uno sparo furibondo con cui allo stesso modo si conclude l’ossessionata vicenda quando il protagonista viene messo in un baule (mi si dice una bara) e non se ne parla più. Significa che lui che ha cambiato vita.
La storia è quella narrata nel libretto di Jules Barbier a proposito di Hoffmann, giovanotto che rivive le vicende di tre suoi amori i quali, per un motivo o per un altro, sono solo sue fantasticherie. E l’amata sarebbe in realtà sempre la stessa, sotto tre diverse spoglie. Quindi è meglio che questo giovane metta la testa a posto e i piedi in terra.
Les Contes non sono opera di repertorio. Nella mia lunga vita ne avrò visti sì e no una dozzina. Però me li ricordo, accidenti se me li ricordo, o per l’allestimento (Carsen, De Ana…) o per qualche interprete (Domingo e la Sutherland, Kraus e June Anderson, e anche le più recenti Dessay e Rancatore splendide Olympia). Qui proprio niente.
Passo a volo d’uccello: il direttore Frédéric Chaslin, francese doc ed esperto del genere, è stato fischiato. Direi immeritatamente. Lui alcuni giorni fa si era lasciato scappare che nella precedente edizione scaligera dei Racconti (2012?) il francese (lingua) non era perfetto. Sarà. Qui la dizione è perfetta solo in Grigolo. È già qualcosa. Ma non credo che i fischi dipendano da un eccessivo campanilismo linguistico. Forse ci si è ricordati che il buon Offenbach, innamorato di Mozart al punto di farne aggiungere il nome ai suoi (Ernst, Theodor, Amadeus 1776-1822), di Mozart qua e là aveva anche la leggerezza. E in questi Contes di leggerezza non si parla proprio. Fischi ovvi, ma moderati, per il regista Livermore coadiuvato da Giò Forma per le scene (ma ci sono delle scene, oltre alle proiezioni??) e Gianluca Falaschi per i costumi da avanspettacolo. Applausi ai cantanti, con ovazione per il protagonista Vittorio Grigolo: Hoffmann è personaggio che sembra composto per lui. Qualche anno fa gli stava ancora meglio.
Le donne. Olympia, la bambola, ha i famosi spericolati trilli che usano scatenare entusiasmi deliranti. Non qui. In effetti la voce di Federica Guida è un po’ troppo corposa per la svettante coloratura della parte. Antonia è Eleonora Buratto. Pur avendo fatto annunciare una indisposizione, si è comportata come al solito benissimo; Giulietta è la giovane promessa Francesca Di Sauro non ancora trentenne. A Nicklausse, ruolo en travesti, ha dato voce il mezzosoprano Marina Viotti, laureata in filosofia e diplomata in flauto, pregevole vocalmente e per presenza scenica.
La compagine maschile, tutti cattivi, addirittura diabolici (Lindorf/Coppelius/Dapertutto/Dottor Miracle) è stata affidata al basso Luca Pisaroni, e ci sono ancora, alternati in vari ruoli, François Piolino, Yann Beuron, Hugo Laporte, Alfonso Antoniozzi.
Grande impegno per il Coro della Scala, guidato da Alberto Malazzi, osannato come di dovere. Improbo lavoro hanno dovuto accollarsi il maestro delle luci (Antonio Castro) e la Compagnia Controluce (Teatro d’Ombre), settori inseriti da poco nei cast e che ci si dimentica sempre di citare.
“Les Contes d’Hoffmann” alla Scala in formato musical. O avanspettacolo. Ma è proprio questo che voleva Offenbach?
16 Marzo 2023 by