Lettura quasi shakespeariana d’un possente “Boris Godunov” alla Scala. Grandi Riccardo Chailly e Ildar Abdrazakov

Il Direttore Riccardo Chailly

MILANO, giovedì 8 dicembre ► (di Carla Maria Casanova)
Boris Godunov alla Scala per l’inaugurazione di stagione 2022-2023. Se ne è parlato da tempo anche perché si è trattato quasi di una inaugurazione del Teatro in senso lato. Per via del Covid, ovviamente. Ma, al contrario di quanto ci si sarebbe aspettato, è subentrata una sorta di parola d’ordine (“Si estinguano le faci e non si offenda, col clamor del trionfo, i prodi estinti”, ordina il Doge nel Simon Boccanegra ). Agire quasi “in sordina”, parola non confacente ad uno spettacolo musicale … Diciamo allora “in austerità”, citando solo la presenza dei nomi della politica (presidente della Repubblica, del Senato, del Consiglio) con l’aggiunta di Ursula von der Leyen. Infatti, una platea con il nero imperante e nessuna divagazione trasgressiva nelle toilettes delle dame. Per la prima volta, l’usata infiorata della sala riguardava esclusivamente il balconcino del palco ex-reale. Gli applausi per gli occupanti di questo palco hanno accumulato minuti 5 (oso dire esagerati). Due gli inni nazionali: Italiano ed europeo.
Lo spettacolo essendo stato proiettato in 32 luoghi dei 9 Municipi milanesi e in tre spazi nell’area metropolitana per un totale all’incirca di 10.000 persone, oltre allo streaming su Rai Uno che deve aver accontentato migliaia di appassionati casalinghi, se qualcuno non ha visto questo Boris è segno che proprio non voleva vederlo. La ormai imperante soluzione dello streaming, indispensabile nei due anni di galera, ha però un inconveniente. Essere un deterrente assoluto per la presenza in teatro del pubblico, che diserta sempre più le sale. Ci sarà un modo per farlo ritornare (il pubblico)? Non so.

Boris e il “fantasma” del fanciullo assassinato.

Dunque il Boris. Gigantesco capolavoro dalla lunga e travagliata storia. Modesto Musorgskij incominciò a comporlo, sulla tragedia di Puškin, nel 1868 e nel 69 era bell’e pronto. Ma non piacque alla censura dei Teatri Imperiali che gli impose delle rettifiche, per esempio aggiungere un personaggio femminile nel senso di una storia d’amore (erano previste nell’opera ben quattro donne, ma un po’ defilate). Il musicista aggiunse il famoso “atto polacco”, con il personaggio della bella Marina, niente male se si vuole, ma che non c’entra un granché con il resto dell’opera. Comunque così alla giuria il Boris piace. Purtroppo, nel 1881 Musorgskij, alcolizzato, muore cinquantenne e per il Boris seguono altri rifacimenti, addirittura ri-orchestrazioni, per mano di Rimskij-Korsakov e poi di Šostakovič. Versioni brillanti più “teatrali” con un bel duettone d’amore e gli atti un po’ rimescolati, chiudendo con una scena meno traumatica, per il pubblico, della morte dello zar, finale di grande impatto che per fortuna è toccato a noi ieri sera. Il maestro Riccardo Chailly direttore dell’opera ha infatti scelto la prima edizione originale, 1869. Il “mai data alla Scala” non è però esatto. Anche Gergiev, che diresse il Boris agli Arcimboldi nel 2002, usò l’edizione 1869 (senza atto polacco) ma Chailly ha ripescato una ennesima nuova edizione critica (di Levašev) con qualche battuta in più.
E adesso subito, senza più tergiversare, questo bellissimo Boris Godunov. Regìa di Kasper Holten, scene di Es Devlin, costumi di Ida M. Ellekilde, luci di Jonas Bogh. Cast di cantanti russi. Protagonista Ildar Abdrazakov. Il sipario si apre su una scena nera in cui si immette il coro femminile dai costumi rossi. Bellissimo effetto. Poi ci sarà anche un coro di pellegrini in vesti bianche e, per l’arrivo e incoronazione dello zar, un tripudio di oro. Bello, bello. L’apparizione di Boris al popolo adorante avviene con una immagine da Flauto magico: al centro si apre un corridoio pieno di luce dal quale escono i monaci e i boiari in costumi lucenti e poi lui, lo zar di tutte le Russie, con l’imperio trascendentale del Sarastro mozartiano. Nella successiva scena della cella di Pimen il fondale e il pavimento sono la proiezione di uno scritto: il diario che il monaco sta scrivendo sugli eventi sanguinosi che hanno portato Boris al trono. Lo zar è infatti accusato di aver ordito l’uccisone dello zarevic Dimitri, legittimo successore di Ivan il Terribile (che nel racconto di Puskin viene ricordato come meraviglioso monarca lungimirante). Qui, nella regìa, qualcosa di troppo: l’apparizione del bambino insanguinato, che puzza di gran Guignol. Presenza ripetuta nel finale, quando addirittura i bambini insanguinati sono i due figli di Boris, presentimento di un futuro carico di orrori. È invece molto ben congeniata la fuga del falso Dimitri dal confine con la Lituania, facendolo minacciare con la pistola il doganiere che gli aprirà il cancello. Nella seconda parte del’opera (quattro atti e sette quadri) i personaggi vestono abiti ottocenteschi, portati ad una dimensione umana più accessibile, seguendo il dramma psicologico del regicidio. Boris non muore cadendo dal trono ma dal suo letto, abbracciato ai figli. Sul corpo oramai esanime dello zar plana il sorriso sardonico del falso Dimitri: “È trapassato” (vedi Jago a Otello “Ecco il Leon” o Tosca a Scarpia: “E davanti a lui tremava tutta Roma…”).
Boris Godunov è teatro e soprattutto musica. Musica possente ma anche intimista. Chailly (questa la sua nona inaugurazione di stagione scaligera) affronta la partitura integra di Musorgskij per la prima volta, dopo sporadiche esperienze nel repertorio russo. Entusiasta di questa prima versione, ne ha fatto una lettura “shakespeariana” avvicinando Boris al Macbeth, diretto nella inaugurazione scorsa. I due protagonisti sono uniti nell’ambizione del potere, nel delitto e nelle allucinazioni. E così Chailly li ha descritti, puntando sul versante psicologico, sottolineando l’evidenza drammatica nelle sue sfumature più intime.
Gli interpreti (15, con 6 protagonisti ma con parti minori distribuite perfettamente) sono tutti dei fuoriclasse specialisti di questo repertorio. Protagonista Ildar Abdrazakov, probabilmente oggi il miglior Boris sulla piazza. La storia cita tanti grandi e grandissimi Boris passati dalla Scala, dallo storico Fiodor Chaliapin (il Caruso dei bassi) a Zaleski e Carlo Galeffi diretti da Toscanini, e Tancredi Pasero, Boris Christoff, Nicola Rossi Lemeni, Nicolai Ghiaurov, Nicola Ghiuselev e i nostri Ruggero Raimondi e Ferruccio Furlanetto, tanto per ricordare che non furono solo i russi a spopolare. Su Rossi Lemeni c’è un piccolo prezioso aneddoto. Il basso, nato a Istanbul da padre italiano e madre russa, si chiamava Nicola Rossi. Fu Toscanini a dirgli “Non puoi affrontare un personaggio come Boris Godunov con quel nome, devi aggiungerne un secondo”. Il cantante aggiunse il nome elaborato della madre: Lemeni. Di Boris, Lemeni aveva oltre alla voce e alla figura anche il viso impressionante, che manca ad Abdrazakov il quale, sia pur con imponente statura fisica, ha un viso pacioso da bravo ragazzo, poco confacente all’imperio di uno zar. E che zar. I primi piani televisivi non lo avvantaggiano. È però efficace ed avvincente l’espressione delle sue tormentate allucinazioni. E la voce grande, calda, rivelatasi nel 2000 al Concorso Maria Callas di Parma, gli hanno permesso di costruire un Boris di forte emozione. Cantante oramai internazionale di enorme prestigio, Abdrazakov è alla sua sesta inaugurazione scaligera. Alla Scala tornerà nel marzo 2023 per interpretare i quattro personaggi diabolici nei Contes d’Hoffmann diretti da Frédéric Chaslin.
Nel cast del Boris si evidenziano altri due formidabili bassi: il monaco Pimen e il vagabondo Varlaam, rispettivamente Ain Anger e Stanislav Trofimov (parecchi grandi protagonisti hanno interpretato tutti e tre i ruoli). Sono tenori Grigorjij (Dmitry Golovnin) , il viscido Sujskij (Norbert Ernst) e l’Innocente (Yaroslav Abaimov). È baritono Scelkalov (Alexey Markov). L’ostessa è Maria Barakova. Direi che Ain Anger, nel monologo di Pimen con il falso Dimitri, abbia toccato punte assolute nel tono sussurrato, quasi estatico.
Impegno grandissimo quello del Coro del Teatro alla Scala diretto da Alberto Malazzi con la partecipazione del Coro di Voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scala diretto da Bruno Casoni. L’Orchestra della Scala sotto alla bacchetta di Chailly ha dato una ennesima pregevolissima prova.
Lo spettacolo, iniziato alle ore 18,10 (10 minuti di ritardo per via degli applausi alla compagine governativa) dura tre ore e mezza. Mi dicono che i commenti alla TV dei presentatori, durante la mezz’ora di intervallo (anche io ricordo quelli degli anni passati), sono di una pochezza e inesperienza imbarazzanti. Uno spettacolo lirico non è “Ballando con le stelle”. Possibile che Mamma Rai non possa offrire niente di meglio? Magari una sostanziosa carrellata sul pubblico, che tanto sgomita per farsi riprendere dalla potente TV , sarebbe la soluzione migliore (senza far parlare le belle signore, per carità!).

“Boris Godunov” si replica il 10, 13, 16, 20, 23, 29 dicembre alle ore 20