L’impudica normalità del teatro di Pippo Delbono al Piccolo

Pippo Delbono al Piccolo Teatro Strehler con “Orchidee” fino al  17; e dal 18 al 20 al Teatro Studio con lo spettacolo autobiografico “Racconti di giugno” (foto di K. De Villers e M. Brenta)

Pippo Delbono al Piccolo Teatro Strehler con “Orchidee” fino al 17; e dal 18 al 20 al Teatro Studio con lo spettacolo autobiografico “Racconti di giugno” (foto di K. De Villers e M. Brenta)


(di Paolo A. Paganini) Denuncia, provocazione? Invettiva, brutale realismo? Stupito sentimento di un’antica pietas o furbo artificio “pour épater le bougeois”? “Orchidee” di Pippo Delbono al Piccolo Teatro Strehler è un po’ tutto questo e, a seconda di come la pensiate, è una o più di queste categorie. Sta di fatto che i dodici storici interpreti di questa anomala compagnia, formata da professionisti e da “casi umani”, non si tirano indietro davanti a nessun tabù reverenziale. L’attore bello, tradizionale, televisivo, modaiolo, l’attore sdolcinato alla Gastone o l’attore eroico alla Kean per capirci, è sostituito da una presenza scenica di una impudica normalità, adiposa o scheletricamente anoressica, scopertamente adamitica o camuffata all’orientale, cenciosa e regale: il tutto sbattuto in faccia, senza rispettosi infingimenti, senza false ipocrisie, attraverso filmati realisticamente brutali, osceni come la morte, o come vivi già morti, o come bestie antropomorfe, o come vecchie agonizzanti sul letto di morte (la madre di Delbono?), o come laparatomie da morgue. Delbono sembra voler dire: tutto è bello, questa è la vita, questo è il mondo, dove però è impossibile vivere, dove solo riparando nel mondo dell’arte, dell’immaginazione, della fantasia, del sogno è forse ancora possibile vivere. E finalmente, a metà spettacolo, dopo una sarabanda di immagini, di musiche frastornanti, di filmati d’una ebbrezza, se non folle, alterata, dove per un’ora gli attori/mimi hanno miscelato in playback scene e parodie più o meno classiche (come l’introduzione dal “Nerone” di Mascagni), ecco che un’attrice in fievole vocalità dichiara dal vivo: “Avrete capito che il regista non ama il teatro!” Sì, si era capito, o meglio si era capito e si capisce che Delbono non ama il teatro delle belle statuine, o quello borghese, o classico che sia. Ama il teatro/vita e si scaglia, con generosa presenza scenica, in uno sconcertante iperrealismo, contro un mondo di plastica (“che ci ucciderà”), contro un mondo di bestie; contro la falsa pietà (attributo dei privilegiati), contro l’inutilità delle rivoluzioni. Eppure in questa pasticciosa congerie d’un inferno ch’è la vita, qualcosa forse si salverà (ci salverà?). Di citazione in citazione, da Shakespeare a Weiss, da Buchner a Pasolini, da Kerouak a Cechov, a Senghor, a poco a poco emerge il credo salvifico di Delbono, che finalmente arriva a dichiarare: “Ama, ama, ama follemente. Ama più che puoi, e se ti dicono che è peccato, ama il tuo peccato e sarai innocente!”. Oppure, la più tenera e bella di tutte, la più nobile, quella che riscatta in un alto sentimento sociale tutto lo spettacolo, la frase d’una maestra cilena: “Fammi essere più madre di una madre nel mio amore per il bambino che non è carne della mia carne”. Pubblico sconcertato, ma anche divertito e acclamante alla fine per tutta la compagnia.

Si replica fino a giovedì 17 ottobre.