(di Andrea Bisicchia) La scienza strutturalista sosteneva che tutto fosse linguaggio e che ogni linguaggio dovesse obbedire a una sua grammatica. W. J. T Mitchell ha scelto, come indagine, il linguaggio dell’immagine, con la sua specificità che egli ritiene ben diversa dal linguaggio verbale, se non opposta, dato che considera la non testualità il suo carattere specifico, pur con le dovute distinzioni, conseguenza degli studi che hanno contrapposto l’immagine tout-court a quella materiale e a quella iconica.
Pur essendo uno studioso del comparatismo, Mitchell è convinto che sia possibile opporre un paradigma visivo a uno verbale, ciascuno con le proprie peculiarità, con codici differenti che, in alcuni casi,possono anche convivere. Dagli anni Sessanta, da quando si impose il genere performativo, l’immagine ha costruito una sua legittimità all’interno della letteratura e del teatro, tanto che la Visual Literacy aveva vissuto un’intensa stagione, così come l’aveva vissuta il Teatro di figura e il Teatro immagine che, del resto, appartiene a tutte le epoche avanguardiste, quelle che vanno in cerca di nuove espressività, al di là dei contenuti. Certo, l’evolversi delle tecnologie ha contribuito a una vera e propria dittatura dell’immagine, favorendo un nuovo rapporto tra artista e immagine e contribuendo alla nascita della disciplina dell’arte visuale.
Nel volume “ Pictorial Turn. Saggi di cultura visuale”, Cortina editore, Mitchell ne teorizza “la svolta”, esaltando le meraviglie della visualità e, nello stesso tempo, indicando le relazioni che possano unire i visual studies a discipline come Storia dell’arte o Storia del teatro, proponendo, nel frattempo, un nuovo ambito di ricerca, attraverso il quale poter sperimentare nuovi linguaggi, oltre che rapporti diversi tra visualità e spazialità, magari con una predilezione per l’immagine de-materializzata che contribuisce alla nascita di una socialità a stretto contatto con campi visivi differenziati.
Nella Società dello spettacolo, è difficile rimanere insensibili a simili trasformazioni sociali, così come risulterebbe retorico incoraggiare le differenze tra arte e non arte, tra segni visivi e segni verbali. La cultura visuale ha come fine quello di dare vita autonoma all’immagine, ammettendo che esista in essa un plusvalore che non sia verbalizzabile, ma che ne testimoni l’autenticità, frutto di quell’immaginario visivo, costruito con codici che appartengono più a una cultura simbolica che verbo-centrica.
J. T. Mitchell, “Pictorial Turn. Saggi di cultura visuale”, Raffaello Cortina Editore 2017, pp 240, € 24.