L’ironica scrittura di Woody Allen in una malinconica storia d’amore nell’età del jazz tra Hollywood e la Grande Mela

28-9-16-cafe-allen(di Marisa Marzelli) Woody Allen non è uno di quei registi che ad ogni nuovo film cambiano argomento, sorprendono con un approccio inaspettato. In questo senso l’80enne autore newyorkese è un gran conservatore. Ogni suo film – e ne sforna uno all’anno – è una riflessione coerente, basata qualche volta su una grande trovata metaforica e più volte su piccole idee sviluppate per reggere l’intera durata della pellicola. Il suo cinema va preso nell’insieme, come un mosaico fatto di tante tessere che sono poi la sua filosofia sulla vita. Variazione sul tema, appunti di un diario esistenziale redatto meticolosamente anno dopo anno.
È sempre delicato e non strillato il cinema di Allen, per questo divide e non piace a tutti. C’è anche chi lo accusa di girare troppi film, rimpastando sempre i medesimi materiali, in un ciclo produttivo da catena di montaggio.
Café Society ha inaugurato in maggio, fuori concorso, il Festival di Cannes. L’ambientazione è situata negli anni ’30, l’età dell’oro del cinema americano classico.
Bobby (Jesse Eisenberg), giovane ebreo di New York un po’ ingenuo e in cerca di fortuna, viene spedito dalla famiglia a Hollywood dove lo zio Phill (Steve Carell) ha fatto fortuna come potente agente delle star. Ma la contrapposizione tra la Grande Mela e la scintillante Costa Occidentale non è il centro del plot, anzi resta sullo sfondo. Il trasferimento abbaglia Bobby, ritrovatosi in mezzo a feste, divi e gran lusso. Il ragazzo s’innamora romanticamente di Vonnie (Kristen Stewart, diventata famosa con Twilight), segretaria e segreta amante dello zio. Anche lei sembra ricambiare, ma le cose vanno diversamente. Anni dopo, Bobby è tornato a New York, ha fatto carriera, si è sposato e dirige un night alla moda, dopo che il fratello gangster è stato condannato. Bobby e Vonnie (lei nel frattempo ha sposato lo zio) si incontrano di nuovo e il rimpianto si fa doloroso.
È il racconto malinconico di una storia d’amore mancata. Intercalato dalla solita voce fuori campo, che è poi il punto di vista registico. La vita, si dice in una battuta già diventata celebre, “è una commedia scritta da un sadico commediografo”. Qualcuno ha azzardato che l’impianto narrativo segue una falsariga letteraria e il punto di riferimento potrebbe essere Il grande Gatsby. L’osservazione ci sta tutta, l’età del jazz è sempre piaciuta a Woody Allen, formatosi sui film dell’epoca. E le atmosfere riecheggiano Fitzgerald.
La vicenda in sé non è eccezionale ma l’incarto è ricco. Non solo la scrittura di Allen è come sempre elegante e ironica, ma la ricostruzione di ambienti e costumi è impegnativa. Al contrario del “solito” Woody Allen che predilige inquadrature strette per non dover mostrare troppo, qui il décor è curatissimo, evocativo e sfarzoso (si calcola che il film sia costato sui 30 milioni di dollari, cifra insolita per un lavoro alleniano). Si coglie anche la citazione dei film d’epoca, dalle commedie alla Lubitsch al genere gangsteristico. Con la scelta di alcune inquadrature inedite per Allen, immagini esaltate dalla fotografia del premio Oscar Vittorio Storaro, alla sua prima (riuscita) collaborazione con il regista de La rosa purpurea del Cairo. E per la prima volta Allen gira in digitale, ma non ci si accorge nemmeno del passaggio dalla pellicola all’elettronico, perché quando un regista è capace e ha cose da dire, il mezzo non è determinante.
Il regista si conferma anche ottimo direttore di attori. Dai protagonisti alle comparse. Se Jesse Eisemberg è perfetto nel look degli anni ’30, forse Kristine Stewart ha un viso un po’ troppo moderno, ma è deliziosa nell’immagine che di lei si crea l’innamorato. Steve Carell, che abitualmente fa il comico, diventa un credibile imprenditore degli Studios.