MILANO, lunedì 4 aprile ► (di Andrea Bisicchia) Tanto era essenziale la regia di “Cavalleria rusticana”, con una infinità di sedie che servivano per indicare la piazza e, girandole, la navata della chiesa, quanto risulta un po’ macchinosa “La cena delle beffe” di Giordano, andata in scena alla Scala sotto la direzione di Carlo Rizzi con la regia di Mario Martone che, insieme a Margherita Palli, ha ideato uno spazio multiplo in verticale, adatto per un set cinematografico, con un ristorante lussuoso dove si incontrano, per far pace, Giannetto e Neri che, dentro di loro, non pensano ad altro che a eliminarsi a vicenda, per mantenere l’amore dell’incolpevole Ginevra ,che dovrà dividersi tra tre pretendenti, oltre che il potere della città.

La scenografa Margherita Palli ha ideato uno spazio multiplo verticale, come per un set cinematografico
L’idea di Martone, condivisa dalla scenografa,è stata quella di ambientare la storia delle rivalità e degli intrighi tra Chiaromantesi e Malespini, in un’America degli Anni Venti, benché l’opera, scritta nel ’24, avrebbe potuto richiamare gli scontri tra socialisti liberali e fascisti, culminati nel delitto Matteotti. Giustamente, il regista non ha badato alla politica del tempo perché il conflitto tra le due famiglie ,concepite come due potentati di tipo mafioso, durante la Firenze di Lorenzo de’ Medici, poteva benissimo essere trasposto in una Little Italy dove gli scontri tra le fazioni delinquenziali erano quotidiani e dove si era disposti a tutto per il corpo profumato di una donna.
Quello che interessava a Martone era, non solo lo spazio scenico, ma anche quello temporale che gli permettesse l’analogia tra i primi anni del Novecento e quelli del periodo mediceo, ovvero tra i prepotenti di allora e quelli di ieri che si potevano permettere di urlare: “Chi non beve con me peste lo colga”, solo che “la peste” coglierà tutti con la mitragliata finale che non risparmierà nessuno.
Lo spettatore segue questi truci avvenimenti mentre si svolgono nei tre luoghi deputati: il ristorante per ricchi mafiosi, la stanza liberty di Ginevra e il sottoscala della tortura a cui è sottoposto Neri, collegati da scale interne ed esterne.
C’è da chiedersi come mai “La cena delle beffe” non abbia avuto la stessa fortuna di “Fedora” o di “Andrea Chenier”. La risposta credo che sia da ricercare nella diversa teatralità delle tre partiture che, pur appartenendo all’area verista, sono ben diverse sia da “Cavalleria” che da “Pagliacci”, per il gusto del colore locale e dell’erotismo morboso di Sem Benelli, il cui testo teatrale, scritto nel 1909, in endecasillabi, ricorda la moda del teatro di poesia che faceva capo a D’Annunzio. Forse le tre opere sono più contigue a “Tosca” o a “Parisina”.
Ne “La cena delle beffe”, però, mancano le arie e le melodie, tanto che la musica serve a commentare l’azione scenica, come se il teatro prendesse il sopravvento su di essa.
Carlo Rizzi, consapevole di ciò, ha scelto le coloriture orchestrali creando una particolare sonorità che ha permesso agli interpreti di dare il meglio di sé anche negli acuti, grazie alle belle voci di Marco Berti, Nicola Alaimo, Kristin Lewis. Una menzione particolare per Jessica Nuccio, nella parte di Lisabetta. L’orchestra della Scala è sempre insuperabile.
“La cena delle beffe” di Umberto Giordano, libretto di Sem Benelli, direzione di Carlo Rizzi, regia di Martone, scene di Margherita Palli. Teatro Alla Scala, Milano. Repliche: 6, 10, 20, 23, 28 aprile; 4 e 7 maggio.
Infotel: 02 72 00 37 44
www.teatroallascala.org