Lo scatenato Luca Barbareschi in un “varietà” musical- autobiografico di due ore, come un “cabaret” di gran classe

Spoleto 57 Festival Dei 2 MondiMILANO, venerdì 20 febbraio 
(di Paolo A. Paganini) Suona e canta al piano e alla chitarra (musiche di Bill Evans, di James Taylor, e di Mozart), balla e recita testi di Shakespeare, di Tomasi di Lampedusa (che già nella versione teatrale del Gattopardo vedemmo in scena al Manzoni di Milano nel 2007), di Mamet (l’amatissimo Mamet, che per primo fece conoscere in Italia, da “American Bufalo” a “Glengarry Glenn Ross”), insomma, con forsennata energia, come forse capita di vedere solo in un concerto rock, alla Freddie Mercury, dei Queen, tanto per capirci, il quasi sessantenne Luca Barbareschi, con sovrumana generosità, ne combina di ogni, sempre sul palcoscenico del Teatro Manzoni, in una performance “atletica” di due ore senza intervallo.
Lo spettacolo, “Cercando segnali d’amore nell’universo”, è, d’altra parte, la specchiata rappresentazione della sua inquieta personalità artistica. Barbareschi possiede il più impressionante, monumentale e variegato curriculum artistico del mondo dello spettacolo italiano, dal cinema al palcoscenico, dal varietà alla televisione. E poi traduzioni di testi teatrali, direzioni di istituzioni artistiche e istituzionali, vita parlamentare (dal 2008 al 2013), campagne sociali contro la pedofilia, produzioni di fiction e format di successo…
Da capogiro. Basta.
Lo spettacolo ora in scena (regia di Chiara Noschese) è tutto strutturato sulla sua ricca biografia artistica e umana, e con quello che s’è detto sopra il materiale non manca. Si snoda come una gioiosa ma anche torbida e drammatica ricerca d’amore, con i toni, talvolta disperati, di chi, fin da piccino, ha dovuto arrangiarsi, tra vecchie zie e genitori distratti occupati in altre faccende. È una narrazione a suon di musica (con la protagonistica presenza di: Marco Zurzolo al sax, Mario Nappi al piano, Antonio Murro alla chitarra, Diego Imparato al contrabbasso, Gianluca Brugnano alla batteria), e va dalla sua nascita di migrante a Montevideo, nel ’56, ai suoi tormentati studi milanesi (fu oggetto di violenze); dalle sue prime esperienze teatrali negli anni Settanta come aiuto regista al suo trasferimento a Chicago, dove collabora con il Lyric Opera Theatre, e poi a New York dove lavora con Frank Corsaro e studia con Lee Strasberg… E intanto pensa al suo primo film, “Summertime”, nel 1983, che colleziona medaglie ai festival di tutto il mondo… Ed è la fine di una squinternata vita da bohemien, fatta di panini e notti arrangiate.
Ce n’è a sufficienza per dare ai nostri lettori un’idea di cosa parla lo spettacolo, che per tre quarti fila via come sull’olio, ma con inceppamenti, che probabilmente la regista s’è lasciata scappare. Spieghiamo. Questo “Cercando segnali d’amore nell’universo”, che è come dire “cercare un ago in un pagliaio”, ha una linea precisa e coerente, anche se il carattere è quello di un cabaret di grande classe. Ecco, è la parola che non velevamo dire. Il genere è stato un mio grande amore. Fino agli anni Ottanta. Poi il glorioso cabaret milanese, dai Franco Nebbia Club al Derby, dal Refettorio alla Bullona, è andato in crisi ed è finito. Ha cercato di salvarsi con i cantautori, ma non c’è stato niente da fare. E allora è ricorso alla volgarità, al linguagio scurrile, alla parolaccia. Ah come ridevano compiaciuti i milanesi! Ora sembra succedere la stessa cosa con Barbareschi. Infila, con palese godimento pubblico, storie, diciamo così, di flatulenze e di cedimenti sfinterici. E giù a ridere. Ma Barbareschi non ne ha di bisogno. È uomo fine, di cultura e di classe. Ci dia un taglio: lo spettacolo si accorcia e ha tutto da guadagnarci.
Grandi applausi finali e un particolare cordiale consenso per la session musicale. Si replica fino a domenica 8 marzo.