Lo scienziato Stephen Hawking in una storia d’amore e malattia. Ma nessuno ci spiega l’importanza delle sue teorie

teoria 1(di Marisa Marzelli) Al cinema è arrivata una raffica di biopic. La biografia va di moda. Dopo American Sniper (sul cecchino più famoso d’America), Big Eyes (su una strana coppia e i loro quadri famosi), The Imitation Game (sullo scienziato Alan Turing, pioniere dalla moderna informatica) ecco ora La teoria del tutto, biografia di un altro celebre scienziato inglese, Stephen Hawking, noto soprattutto per gli studi sui buchi neri e l’origine dell’universo, paragonato ad Einstein per l’importanza delle sue ricerche, autore tra l’altro del saggio Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo (1988), diventato un best-seller e venduto in milioni di copie.
Esaminate tutte insieme, queste biografie cinematografiche palesano una sconcertante verità: niente sembra più incredibile, metaforico e irrisolto di tali storie vere. Rispettando i fatti, che sono fuori dalla norma, i personaggi restano però misteriosi nelle loro spesso insondabili, a volte contraddittorie, motivazioni personali. Ti racconto una storia intrigante, fidati in quanto non è frutto d’invenzione, eppure non mi azzardo a tentare un’interpretazione di come e perché una personalità così “extra-ordinaria” sia riuscita nell’impresa.
Il meccanismo è particolarmente evidente in La teoria del tutto, che si approccia lateralmente alla personalità dello scienziato Stephen Hawking prendendo come base il libro Verso l’infinito (da poco edito in italiano da Piemme), scritto dalla prima moglie Jane. Ne esce un ritratto, soprattutto privato, nell’ottica della donna.
E allora La teoria del tutto diventa una biografia vecchio stampo; confezionata secondo i canoni classici, con un’estetica finalizzata a suscitare commozione spingendo sul pedale della lacrima, con caratteri a tutto tondo (sfortunati ma indomiti). Per ottenere il risultato serve un’interpretazioni da urlo, da performance precisa al millimetro per platee mainstream, pronta per sbancare ai premi cinematografici. Si sprecano gli attori – anche bravissimi, per carità – che hanno ricevuto l’Oscar interpretando il disabile o lo strano, come Dustin Hoffman (autistico in Rain Man), Daniel Day Lewis (cerebroleso in Il mio piede sinistro), Tom Hanks (soave debole mentale in Forrest Gump), Marlee Matlin (l’attrice sorda dalla nascita ha vinto per Figli di un dio minore e poi è sparita dagli schermi), per non parlare di Al Pacino (che ha acchiappato l’Oscar nel ruolo di un cieco nel modesto Profumo di donna, ma snobbato per Il padrino), o l’anno scorso la doppietta protagonista/non protagonista Matthew McConaughey/Jared Leto consumati dall’Aids in Dallas Buyers Club.
Detto questo, l’attore londinese Eddie Redmayne nei panni dell’astrofisico inglese prenota un posto in prima fila per l’Oscar, dopo aver già strappato il Golden Globe per la migliore interpretazione drammatica e la candidatura al Bafta inglese. Non è questione di voler ad ogni costo smontare La teoria del tutto, ma in una biografia di Stephen Hawking, oggi 73.enne, ci si aspetta che almeno il film accenni a perché le sue teorie sono così importanti. Invece la narrazione s’interessa quasi esclusivamente ai sentimenti.
È una storia d’amore e malattia, volontà e lotta contro il tempo, che è un punto centrale negli studi dello scienziato. Hawking (Redmayne) e Jane (Felicity Jones, anche lei candidata all’Oscar) sono due studenti ventenni di Cambridge, si conoscono e s’innamorano. Ma a lui viene diagnosticata una malattia neurologica degenerativa che secondo i medici lo porterà alla morte entro due anni. Nonostante ciò si sposano e il sostegno di lei sarà determinante perché l’uomo continui le sue ricerche mentre diminuisce progressivamente la sua autonomia fisica. Dopo venticinque anni e tre figli, i coniugi si separano. Lui va in America con l’infermiera che lo assiste, che sposerà e dalla quale divorzierà anni dopo; lei si rifà una vita con il vedovo insegnante di canto della chiesa. Ma senza drammi apparenti e senza che il plot dia grande importanza alla cosa.
Il film è diretto in modo impeccabile, poco problematico e convenzionale da James Marsh, già documentarista premiato con l’Oscar per Man on Wire.