L’opera incompiuta di Pirandello tra sogno e realtà. I deliri immaginifici di Roberto Latini ne “I giganti della montagna”

4.5.16 collage gigantiMILANO, mercoledì 4 maggio ► (di Paolo A. Paganini) Un’opera d’arte, bella, inquietante, può anche essere inconclusa. Come la michelangiolesca Pietà Rondanini. Come la pucciniana Turandot. D’altra parte, tutto ciò che è inconcluso è inquietante, e avventurosamente stimolante. Come la vita. Nessuno può dire di averla conclusa bene, finché non arriva quell’ultimo momento.
“I giganti della montagna”, di Pirandello, è opera inconclusa, non solo perché manchi il finale del terzo atto, ma perché è aspra e tragica, in parte autoreferente, come un’oscura preveggenza, o come un testamento. Lasciata in sospeso nel ’36, quando Pirandello morì, si avverte la mancanza di una ulteriore e definitiva revisione. E tuttavia è di una bellezza incommensurabile.
Come la summa d’una vita, riecheggia di opere precedenti; richiama l’addio all’arte e alla magia della vita dello shakespeariano Prospero (“Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni” eccetera); indugia sulle antinomie tra sogno e realtà, tra verità e falsità, tra vita e teatro, tra concretezza e illusione; costruisce fantasmiche proiezioni nelle platoniche caverne delle sue angosce, dove sono stati incatenati i sogni del suo unico grande amore. Emerge, come in un diario, con la lucidità di un’autoanalisi, la tormentata passione per la sua Musa, la quale, come un debito d’amore, non corrispose in vita e porta avanti, ora, l’opera del suo Poeta morto suicida, che per Lei scrisse “La favola del figlio cambiato”. E se ne spiegano le ragioni.
Il dramma “I giganti della montagna” è da leggere prima che vedere. Si capirà meglio come “i sogni, a nostra insaputa, vivono fuori di noi, per come ci riesce di farli, incoerenti. Ci vogliono i poeti per dar coerenza ai sogni…” (Cotrone alla Contessa). E ancora: “Voi attori date corpo ai fantasmi perché vivano – e vivono! Noi facciamo il contrario: dei nostri corpi, fantasmi…” (Cotrone) Questo continuo scambio, sogno/realtà, è il fascino misterioso del gioco pirandelliano, dove tutto è reale e tutto è illusione.
Queste premesse sono state anche alla base di una esaltazione. Detta con il dovuto rispetto, di questa esaltazione, Roberto Latini ne ha fatto un monologo in due parti d’una quarantina di minuti ciascuno, allestito al Piccolo Teatro Studio. E già il termine monologo è riduttivo, riferito a questi “Giganti” di Latini (qui interprete, adattatore e regista), perché la sua “ricerca” è un continuo “dialogare” con i personaggi pirandelliani, soprattutto con Ilse, la Contessa, inquieta e inafferrabile come la Musa pirandelliana, e con la Sgricia, in una delle più belle pagine pirandelliane, “Andavano ai due fianchi dello stradone quei soldati, e in testa, davanti a me, nel mezzo, su un cavallo bianco maestoso, il Capitano… Tutti giovanotti di vent’anni…” Ed erano tutte anime del Purgatorio (in quanti film del mistero è stata ripresa l’immagine!). E poi con Spizzi, morto impiccato. O con il sogno di Spizzi che sognava di morire impiccato?
Roberto Latini non fa un’operazione filologica. Non applica quello che dice Diamante “Quello che non si può più rappresentare, lo si legge”. Latini coglie lacerti di frasi, singole parole semanticamente pregnanti (Immaginazione… Paura… Eccoli…) e costruisce a tema fuochi d’artificio di autonoma teatralità (suggestivi giochi di luce, suoni e musiche di misteriche fascinazioni), sfruttando una vasta gamma di ricchezze vocaliche, virili o in falsetto, con richiami (voluti?) cinematografici, come la voce del perfido e corrotto Gollum del “Signore degli anelli”. Se c’è un filo logico (ma non cercatelo) sta nella tensione emotiva, non nel racconto, ma nella voce nei suoni nelle visioni suscitatrici, evocatrici, creatrici di accensioni immaginifiche. Fino alla bella e inquietante calata dei Giganti, con quell’uscir per i piedi dal sipario in un ultimo delirio di morte.

“I giganti della montagna”, di Luigi Pirandello, adattamento e regia Roberto Latini. Con Roberto Latini. Musiche e suoni Gianluca Misiti, luci Max Mugnai, video Barbara Weigel. Al Piccolo Teatro Studio Melato (Via Rivoli 6, Milano). Repliche fino a domenica 8 maggio.

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