L’Oscar premia il vuoto a perdere di “La Grande Bellezza” d’un Sorrentino grottesco e spietato

Sabrina Ferilli e Toni Servillo in una scena del film “La Grande Bellezza”, di Paolo Sorrentino. Nell’altra foto, Toni Servillo: un’interpretazione semplicemente immensa

Sabrina Ferilli e Toni Servillo in una scena del film “La Grande Bellezza”, di Paolo Sorrentino. Nell’altra foto, Toni Servillo: un’interpretazione semplicemente immensa

(di Paolo Calcagno) Da 25 anni, almeno, Cate Blanchett è la mia attrice preferita, l’unica per cui mi sia realmente emozionato, durante una sua apparizione verde-smeraldo al Napoli Film Festival. Eppure, per una serie di congiunture sfavorevoli non ho ancora visto la sua interpretazione (straordinaria, mi dicono) in “Blue Jasmine”, di Woody Allen. Pertanto, non avevo potuto prevederla trionfante agli Oscar e consideravo favorite Meryl Streep (“August Osage County”) e Judi Dench (“Philomena”) per il trofeo riservato alla “migliore attrice protagonista”. Naturalmente, sono più che lieto per la vittoria della bravissima attrice australiana (per me, insuperabile in “Elizabeth”) e felice di aver “bucato” il pronostico.
Per il resto, condivido pienamente tutte (o quasi) le scelte dell’”Academy” e, confesso, che tifavo per esse, a incominciare dall’Oscar per “il miglior film straniero”, vinto da quello straordinario apologo del declino e del disagio post-moderno che è “La Grande Bellezza”, di Paolo Sorrentino, vero maestro delle inquadrature e grande artista del racconto cinematografico.
Preciso subito che il precedente “quasi” riguarda la statuetta alla “migliore attrice non protagonista”, andata a Liopita Nyong’o, eccellentemente in parte in “12 Anni Schiavo”: tuttavia, la mia preferita era Julia Roberts, dolorosamente dura e ostile in “August Osage County”. Riassumendo brevemente, davo per scontata l’affermazione di “12 Anni Schiavo”, di Steve McQueen, nella categoria più importante, “miglior film”: un “filmone”, davvero, il cui alto valore è sottolineato dall’inedito obbligo di proiezione nelle scuole americane. Matthew McConaughey e Jared Leto, rispettivamente “miglior attore protagonista” e “non” in “Dallas Buyers Club”, di Jean-Marc Vallée, non avevano rivali, se qualità e impegno della recitazione sono ancora da considerare prevalenti su abilità e successo pre-costruito del personaggio. Infine, restando ai premi principali, mi fa particolarmente piacere per l’Oscar “alla miglior regia” conquistato (assieme ad altri 7, più tecnici) da “Gravity”, del messicano Alfonso Cuaròn, primo cineasta latino-americano premiato dall’ “Academy”. “Gravity”, ingiustamente sottovalutato fin dall’ultima Mostra di Venezia, è un vero dono che riempie e arricchisce il pubblico del grande schermo.
servillo 2E veniamo all’Oscar, per noi, più atteso, che conclude il percorso di trofei tracciato con le conquiste del Golden Globe, European Film Award, Bafta britannico. 15 anni dopo “la Vita È Bella”, di Roberto Benigni, l’Oscar al “miglior film straniero” ritorna in Italia grazie a “la Grande Bellezza”, di Paolo Sorrentino, che continua a negare ogni riferimento con “La Dolce Vita”, di Federico Fellini. E, tuttavia, il grande regista riminese, Martin Scorsese, i Talking Heads” e Diego Armando Maradona sono stati citati quali “fonti di ispirazione” da Sorrentino, sul palco dei premiati, a Los Angeles: “Quattro campioni nella loro arte, che mi hanno molto insegnato, tutti, che cosa vuol dire fare un grande spettacolo, (cosa) che penso sia innanzitutto alla base dello spettacolo cinematografico”, ha dichiarato il regista napoletano. Sorrentino ha anche ricordato Napoli e Roma nelle sue citazioni e ringraziamenti: la città d’origine e quella in cui ha scelto di vivere, due capoluoghi di “La Grande Bellezza”, scandita nel tempo da monumenti, opere d’arte, tesori culturali, tradizioni popolari, immersi in incanti naturali senza uguali: una “Grande Bellezza” trascurata e tradita dallo svuotamento di valori e dal degrado culturale e sociale di chi la abita e di chi dovrebbe governarla e proteggerla.
Protagonista del film di Sorrentino è Jep Gambardella (cui dà rugosa malinconia un immenso Toni Servillo), giornalista dandy napoletano di 65 anni, autore di un solo romanzo scritto 40 anni prima, animatore e sovrano delle terrazze capitoline. Jep è un intellettuale pigro, un piacione compiaciuto, un fallito che si rifugia nel ruolo dello scettico-blu, brillante e detestabile fustigatore dei suoi compagni di cene e feste, modaioli vuoti e annoiati, desiderosi di apparire ad ogni costo, personaggi in fuga permanente dall’esigente autore della vita reale che si ubriacano del niente della dance-music, dei drink colorati, della cocaina che surroga le energie di cui non sono più capaci.
Sorrentino fa raccolta di incontri e ricordi e, raccontando in maniera grottesca e spietata i contrasti conosciuti (direttamente e non) di una Roma stordita e sonnambula, sviluppa la sua visione critica di certe categorie privilegiate della società del benessere, irrimediabilmente alle deriva verso le spiagge catramate dove l’esistenza si riduce a un miserabile vuoto a perdere.
“La Grande Bellezza”, regia di Paolo Sorrentino, con Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli. Italia, 2013.