(di Patrizia Pedrazzini) Che cos’è, per un artista, il talento? Un dono o una maledizione? O tutt’e due? Quanto costa, in termini di equilibrio dell’animo, il processo creativo? Qual è il prezzo del passare dall’esaltazione all’esasperazione, al turbamento? Come nasce, e come e quando (e se) finisce, un’opera d’arte?
Parigi, Montmartre, 1964. Il pittore e scultore svizzero Alberto Giacometti è da tempo un artista straconosciuto e strapagato (la sua scultura bronzea “L’Homme Qui Marche”, già venduta al prezzo record di oltre 100 milioni di dollari, nel 2015 verrà battuta da Christie’s, a New York, per 141 milioni di dollari). L’indiscusso successo raggiunto non lo distoglie tuttavia da una vita disordinata e inaffidabile, al limite del nevrotico. Un giorno lo scrittore e appassionato d’arte americano James Lord, nel corso di un breve soggiorno nella capitale francese, accetta l’invito dell’artista di posare per lui. Per un ritratto. Lusingato e incuriosito dall’esperienza che gli si delinea, accetta.
Sarebbe dovuta essere una questione di due, tre giorni al massimo. Diventeranno 18, che Lord descriverà minuziosamente nel proprio “A Giacometti Portrait”, il diario al quale ha attinto, per “Final Portrait”, l’attore e regista statunitense Stanley Tucci, qui al quinto lungometraggio dietro la macchina da presa. Un film nel quale affronta e dipana, con tocco garbato e raffinatezza, lo sviluppo estenuante e incontrollabile della creazione artistica, il faticoso evolversi di un processo affascinante e tormentato, ma soprattutto costantemente rinviato. All’indomani, a due giorni dopo, a tre, quasi l’artista (e il suo ego smisurato, che tutto distrugge in nome della propria arte) chiedesse continuamente di non essere costretto a terminare il lavoro, a finire un ritratto che non vuole ultimare e che, infatti, rimarrà, almeno apparentemente, incompiuto (tra l’altro Giacometti morirà due anni dopo, per cui il quadro si configura come il suo ultimo ritratto). E questo non solo perché incompiuto è bello, ma anche perché l’oggetto umano, il volto soprattutto, è quanto di più mutevole possa esistere, impossibile da fissare se non per un impercettibile istante. Quindi continuamente passibile di accanite, spesso frustranti, modifiche.
Tutto questo, nel film di Tucci, è reso con rara e delicata maestria. Grazie anche all’interpretazione, di livello decisamente superiore, del Premio Oscar (come miglior attore protagonista per “Shine”) di Geoffrey Rush nei panni (peraltro somigliantissimi) di Giacometti. Nonché alla contrapposta, elegante presenza di Armie Hammer (“Biancaneve”, “Animali notturni”, Chiamami col tuo nome”) nel ruolo di Lord.
Il tutto in una Montmartre ancora bohémienne, fra incontri nel grigio atelier sporco di creta, di fumo, di colori e di rifiuti sparsi a terra, passeggiate e conversazioni lungo i viali del cimitero, pranzi consumati in fretta ai tavoli dl vicino bistrot. E pacchetti su pacchetti di sigarette fumate l’una dietro l’altra, scenate di gelosia e momenti di rabbia impotente. La moglie Annette (Sylvie Testud), l’amante fissa, la prostituta Caroline (Clémence Poésy), il fratello Diego (Tony Shalhoub). Tutti impegnati nel dar corpo, insieme, a una variegata tavolozza di emozioni umane, e insieme a far emergere, catturandolo, il più classico e indispensabile dei binomi artistici: l’incontro-scontro tra la forza del genio e la sregolatezza che lo innesca, facendolo deflagrare.
Un film di nicchia, raro. Un peccato perderlo.
L’ultimo ritratto di Giacometti. In un film raro e garbato la faticosa nascita di un’opera d’arte. Fra genio e sregolatezza
6 Febbraio 2018 by