L’uomo crede solo nelle immagini? Sì, purché conservino il mistero del pathos. Vedi Ginzburg. E il Teatro Immagine

collage ginzburg(di Andrea Bisicchia) La foto del piccolo siriano, raccolto sulla spiaggia da un agente, ha fatto il giro del mondo grazie alla potenza dell’immagine e ha suscitato paura, per ciò che sta accadendo in medio oriente, reverenza per il dolore del padre, terrore per l’insensibilità umana nei confronti dei perseguitati. Ha suscitato anche tanto pathos, per il suo messaggio morale più che ideologico e politico, in quanto contiene, dentro di sé, una forma archetipica che rimanda al dolore per la morte di tanti bambini durante le guerre precedenti.
Perché questo preambolo?
Perché Aby Warburg, a cui è dedicato il volume di cui parlerò, come è noto, nei primi anni del Novecento, coniò il termine: “Pathosformeln”, proprio per sottolineare le formule del pathos che sottostanno a certe immagini, oltre che la permanenza dell’antico nel presente. Basterebbe, per capirci, riflettere, a questo proposito, sull’uso che il Rinascimento seppe fare delle immagini dell’antichità, divenute prototipi di quella memoria culturale e di quelle stratificazioni storiche che esse contengono.
“Paura, Reverenza, Terrore” è il volume di Carlo Ginzburg, edito da Adelphi, che dà inizio a una collana, dal titolo emblematico: “Imago”, ideata da Roberto Calasso, che pone, a base della sua ricerca, il valore dell’immagine, che, nel linguaggio della comunicazione, ha un potere più forte di ciò che intende rappresentare. Date le mie competenze, come non pensare al “Teatro Immagine”, più portato alla performance che alla testualità, e che, proprio per questo, contiene gli stessi stimoli contenuti nel “pathosformeln”, avendo, come fine, non tanto la necessità di rappresentare dei contenuti, quanto diverse forme del pathos, con l’uso del linguaggio del corpo, ben diverso da quello verbale, i cui risultati sono spesso di tale superficialità, da non rendermi indulgente nei confronti di questo genere.
Personalmente sono per il rigore, quello della ricerca accademica e quello del palcoscenico che mi è stato insegnato da Andrée Shammah e Franco Parenti, grazie al quale, si può intervenire sul mistero del testo, oltre che dell’immagine, soprattutto per chi li interpreta, perché, proprio in essi, andiamo in cerca di noi stessi. Il rigore può essere applicato all’immagine, come dimostra Ginzburg, nel suo studio, ma non basta quando questa rappresenta il vuoto concettuale, come accade proprio in tanto Teatro-immagine, fatto di trame che, spesso, non contengono nulla, perché banali, prive, cioè, di quel rigore che richiede processi analogici,contenuti metaforici, che ne accertino la qualità.
Leggendo i cinque capitoli, arricchiti da pertinenti illustrazioni, che hanno come filo conduttore il significato soprattutto politico dell’immagine, Carlo Ginzburg offre al lettore i particolari processi analogici che sottostanno a essa, a cominciare dalla “Coppa d’argento dorata”, del 1530, le cui immagini intarsiate, con uomini e donne seminude, che sembrano creature della mitologia greca, viste in tante pitture vascolari, sono diventate archetipi della memoria di tanti artisti che si sono succeduti nel tempo. Non basta, perché l’opera che si trova ad Anversa, permette a Ginzburg altri accostamenti con le pitture di Piero di Cosimo o con le incisioni del Mantegna, quelle di “ La zuffa dei marinai”. Il metodo di ricerca di Ginzburg rimanda al “Cannocchiale rovesciato” di Rousseau,  ovvero a quella “distanza”, anche temporale, necessaria per comprendere i temi successivi, quello del Leviatano di Hobbes, ovvero  della funzione dello Stato e del terrore implicito in ogni forma di potere, che si può esercitare anche iconograficamente, come si può vedere nel “Marat” di David e quello politico, visibile in “Guernica” di Picasso, oggetti, entrambi, dell’ermeneutica di Ginzburg, convinto che gli uomini credano soltanto in ciò che immaginano.

Carlo Ginzburg, “PAURA, REVERENZA, TERRORE”, Adelphi Edizioni, 2015 , pp. 312, € 40.