Ma che fine hanno fatto le anitre nel laghetto di Central Park? Il laghetto è ghiacciato. E a Milano i teatri han chiuso

MILANO, mercoledì 4 marzo – Sale deserte, pubblico disorientato, gente di teatro depressa e senza lavoro. Un attore, Umberto Ceriani, ha preso da uno scaffale della propria libreria “Il giovane Holden” di J. D. Salinger. Un libro, racconta, che occupò l’appetito dei suoi giovani anni. E qui ne ha fatto una specie di monologo per un ideale palcoscenico dello “Spettacoliere”, in attesa che i teatri riaprano per davvero. Ne è uscita una poetica e toccante metafora di questo drammatico momento.
Ma anche un segno di speranza. (p.a.p.)

DI UMBERTO CERIANI.

“… Sa le anitre che stanno nel laghetto del Central Park? Mi saprebbe dire dove vanno d’inverno quando il laghetto gela?”. Così chiedeva il giovane Holden allo scontroso tassista che lo trasportava nel traffico caotico di Manhattan
E quello rispondeva piccato: “Che ti salta in testa, amico? Mi prendi per fesso?!”.
È una domanda curiosa quella di Holden, che ancora mi affascina dopo tanti anni da che lessi il libro di Salinger, che occupò l’appetito dei miei giovani anni.
Già, dove vanno le anitre?
Oggi, a Milano City, nei confronti delle sale cittadine dei teatri c’è qualcosa che somiglia al rigido inverno che incombe sull’acqua del laghetto di N. Y. C.
L’ordinanza comunale della serrata è stata pronunciata per una settimana già trascorsa e un’altra che c’è già: totale, due settimane di buio fitto. E poi non è detto che la gelata del laghetto non costringa a tempi più lunghi. Insomma, l’incertezza la fa da padrona. Per ora, quindi, i teatri milanesi sono chiusi.
Eh, già. Ma, nel frattempo, dove sono andate le anitre? Sono scomparse, volate via? D’altra parte, lo spessore del ghiaccio non consente più alle papere di nutrirsi di erbe acquatiche e magari di qualche smarrito pesciolino. E, allora, è gioco-forza sparire per un po’, aspettando tempi migliori.
Per intanto, la gente ci può pattinare, sul laghetto ghiacciato, si può esibire in figure classicheggianti, e anche in qualche comico ruzzolone, e ci fa su qualche risata. C’è chi s’è portato da casa un cestino da pic-nic con qualcosa da sgranocchiare e un thermos di caffè bollente per vincere il freddo barbino. La gente va avanti così, per qualche giorno, fingendo di divertirsi con pattini e slittini fino all’ora vespertina, quando le interminabili vetrate dei grattacieli riflettono sul parco i raggi del sole che tramonta dalla parte di Brooklyn e del New Jersey.
Fatto si è però che, dopo qualche giorno, la gente, quasi senza accorgersene, comincia a provare una certa nostalgia delle anitre: divertivano il loro allegro sciacquettare sul laghetto, gli acrobatici e rapidi voli e le improvvise planate, i loro squittii di richiamo, i serrati dialoghi d’amorosi intenti o le bisbetiche tenzoni con sbattimento d’ali: una rappresentazione continua che teneva compagnia.
Era come se i variopinti germani dipanassero sul loro palcoscenico lacustre il racconto di molte esistenze: con i corteggiamenti, gli amori, i dissidi, gli scontri, la morte. La gente ora sente la mancanza di questo. Non credeva possibile, ma invece le capita. Ma che importanza ha svagarsi piroettando su una lastra di ghiaccio, se contemporaneamente viene a mancare lo specchio riflettente la vita, lo specchio che le anitre hanno assunto come impegno di tener bello e lustro?
Qualcuno ora prova sul dorso della mano la temperatura dei raggi del sole: sì, forse ci siamo. Tempo un paio di giorni e il tepore dell’astro si poserà, leggero come una carezza, sul ghiaccio del laghetto, che a poco a poco si scioglierà.
E le anitre potranno tornare.
C’è chi dice che erano andate a posarsi dalle parti di Broadway, dove le insegne luminose dei teatri intiepidiscono l’aria e intorno non c’è ombra di ghiaccio… Ma che non vedono l’ora di tornare al proprio spazio lacustre, perché hanno un buon repertorio di nuove storie da raccontare…
E poi, perbacco, qui attorno c’è il pubblico affezionato che le aspetta.
Anche a Milano City si attende che un sole tiepido appaia tra le nubi e sciolga il ghiaccio. Una città orfana del teatro magari non se ne rende conto subito, ma con l’andar del tempo si agita scompostamente, come fanno i fantasmi nel buio retropalco di una sala di provincia abbandonata.
Una porta di teatro chiusa è uno sconforto dello spirito, è una ferita dell’anima, è una perdita di ricordi, è una mortificazione dell’intelligenza, è la morte della libertà.
Il teatro è importante per una comunità. Lo è fin dai tempi degli uomini delle caverne, quando due di loro decidevano di rivivere, rappresentare e ricordare agli altri cavernicoli, con un misto di gesti esagerati e di fonemi gutturali, uno scontro corpo a corpo avvenuto tempo prima con i loro nemici. E, quando uno dei due cadeva a terra fingendosi morto, gli altri, che assistevano seduti a semicerchio, esplodevano in ululati di approvazione per gli esecutori. E ciascuno, fin d’allora, si sentiva come liberato da un incubo. Ciascuno si sentiva a sua volta vincitore. Perché il teatro, fin da quella lontana caverna fiocamente illuminata, liberava gli “spettatori” dai loro fantasmi…
E noi quando potremo liberarci dai nostri fantasmi? Con le porte dei teatri finalmente aperte, e i riflettori accesi in scena?