“Macbeth” di Branciaroli al Piccolo. Una fulgida gemma shakespeariana. Diventata un allestimento alla bell’e meglio

TEATRO SOCIALE CENTRO TETRALE BRESCIANO MACBETH

Franco Branciaroli e Valentina Violo in una scena del “Macbeth” in scena al Piccolo Teatro Strehler.

MILANO, mercoledì 19 ottobre – (di Paolo A. Paganini) “Macbeth”, scritto da Shakespeare intorno al 1606, è una tragica liturgia morale che va dall’innocenza alla punizione e all’eterna maledizione del protagonista, passando attraverso i tormenti di atroci presenze soprannaturali: l’apparizione dello spettro di Banquo, ucciso da un sicario di Macbeth, un pugnale che si libra nell’aria, le ambigue profezie delle streghe, che gli predicono che diventerà re. E allora, tanto vale dare una spinta al destino, assassinando il re Duncan e le sue guardie, ospiti nel suo castello, venendo così meno anche ai sacri doveri dell’ospitalità. Ma ormai Macbeth e la sua Lady sono diventati inarrestabili artefici di perfidie, una più una meno, in una spirale di sangue, come il feroce assassinio della moglie e dei figli di Macduff, che faceva ombra alla sua sete di potere. Infine, Lady Macbeth, divorata dagli spettri della cattiva coscienza, impazzisce e si suicida. E lo stesso Macbeth, anche lui non troppo a piombo con la testa, muore trafitto dalla spada di Macduff…
Macbeth è forse il più breve dramma shakespeariano. Le scene, se mi si passa il paragone, hanno sequenze di intensa velocità cinematografica (famosa sugli schermi la versione di Orson Welles, e poi quella di Polanski, e quella di Kurosawa) e possiedono un crescendo di avvincente tensione emotiva.
Ora, al Piccolo Teatro Strehler, è sceso in campo anche Franco Branciaroli, in questo che forse è per natura il più esaltante dramma shakespeariano in pasto alle fauci di mattatoriali vocazioni, così facilmente pericolose alle tentazioni gigionesche. L’avvicendarsi di travolgenti scene-madri aiutano all’uopo e alle bisogna.
La tragedia è da Branciaroli, che firma anche la regia, suddivisa in due parti (un’ora e un quarto la prima, un’ora secca la seconda). Da un punto di vista scenografico, tutto è studiato in funzione della velocità. Cadono dal cielo via via sipari/separé che isolano, ora qua ora là, ora a destra ora a sinistra, ora a tutto campo, per fare spazio alle diverse e successive azioni. La scena è ovviamente vuota. Bisogna muoversi alla svelta. La semioscurità, peraltro, aiuta a mantenere il senso di mistero e l’incombenza del destino crudele di questo valoroso guerriero, che s’è meritata fama, gloria e onori sui campi di battaglia, per poi farsi fregare dall’ambizione del potere.
La fantasia non basta, ma la Storia insegna.
Qui c’è un valoroso soldataccio di fantasia, forse anche un po’ ottuso e ignorante (d’altra parte, solo in Amleto c’è un protagonista intellettuale che si vede con un libro in mano); là, nella Storia, per usare un macro esempio, c’è stato un modesto e velleitario imbianchino austriaco, ossessionato dal potere, che ha mandato a morte soltanto sei miliioni di ebrei.
Ovviamente, Macbeth non presuppone analisi o approfondimenti psicologici. Skakespeare narra, e basta.
E Branciaroli narra, e basta. Ma non ha donato un attimo di emozione, un palpito di partecipazione, un pur piccolo brivido.
Ha però fornito una delle più straordinarie performance di gigionismo con uno degli allestimenti più brutti di questa stagione appena iniziata. Nei tempi antichi della giovinezza, pensavamo che il re del gigionismo fosse Memo Benassi. Povero, i suoi erano modesti e da noi equivocati chiaroscuri della voce. Gli stessi Macbeth di Vittorio Gassman al Filarmonico di Verona, e di Carmelo Bene al Lirico di Milano, entrambi nell’83, erano, al massimo, esplosioni di incontenibile gioia mattatoriale. Col fonè o senza fonè.
Qui, Branciaroli sembra continuamente che dica: adesso vi faccio vedere quanto son bravo. E giù con falsetti, reboanze di petto, cupi sussurri, acuti areniani, profondità alla Nicola Rossi-Lemeni. Farebbe saltare spettrografi e fonetografi…
Che senso abbia tutto ciò rientra nell’impescrutabilità dei fenomeni soprannaturali.
Da rispettare la buona volontà di chi ci lavora e ci crede, anche se poi ti frega la pochezza di mezzi, che ormai ha tragicamente travolto tutte le compagnie più o meno private. In questo allestimento (otto attori in tutto. Dài, segnaliamo almeno la corretta Lady Macbeth di Valentina Violo) s’è risparmiato sulla luce, non ci sono diritti da pagare per le musiche (mancano completamente), non ci sono rumori fuori scena ad indicare calpestio di soldataglie, frastuono di battaglie, sferragliare di armi (una sala di registrazione costa). Giù un sipario, a destra o a sinistra, e tu immagina quello che vuoi, dalla fine di Lady alla morte di Macbeth. Salvo riprendere visibilità, all’ultimo momento, per far rientrare Macbeth agonizzante e farlo morire in scena. Vuoi che un attore rinunci alla scena travolgente del momento culminante di una bella morte da applausi? E infatti gli applausi fioccano. Fine.

“MACBETH”, di William Shakespeare, traduzione di Agostino Lombardo. Regia di Franco Branciaroli. Scene di Margherita Palli. Costumi di Gianluca Sbicca. Con Franco Branciaroli e Valentina Violo, e con Tommaso Cardarelli, Daniele Madde, Stefano Moretti, Livio Remuzzi, Giovanni Battista Storti, Alfonso Veneroso. Produzione CTB Centro Teatrale Bresciano, Teatro de Gli Incamminati – Al Piccolo Teatro Strehler – Repliche fino a domenica 6 novembre.

www.piccoloteatro.org