VENEZIA, sabato 24 novembre ► (di Carla Maria Casanova) Per la inaugurazione della sua stagione lirica La Fenice ha puntato, in primis, su regista e direttore: Damiano Michieletto e Myung-Whun Chung. Con Chung si va sul sicuro. Michieletto è sempre una sorpresa (rischio?). Alla Fenice Michieletto è stato più che collaudato: nove produzioni, alcune di grandissimo successo. Ma dato il tipo, non si sa mai. Lui ha idee, che per un regista sono la prima qualità, specie in tempi in cui le idee non abbondano. Semmai con lui il pericolo è che, di idee, ne ha troppe. Direi che questo sia il suo “limite” in Macbeth (scene Paolo Fantin, costumi Carla Teti, luci Fabio Barettin).
Dice, il regista, di aver letto il testo shakespeariano come “un mondo onirico e costellato di allucinazioni, niente guerra, niente sangue, niente rosso, solo bianco, il colore della morte.” E fin qui…
Ma far risalire i problemi di coppia tra Macbeth e consorte al lutto per una figlia morta e al loro desiderio di reincontrarla attraverso la mediazione delle streghe, è intenzione ardita. Soprattutto ardite sono le conseguenze. Per raccontare questa storia che tutti ignorano, il regista deve inserire personaggi, simboli, gesti, bambini (che già per conto loro sono un problema in scena… e altrove). Qui compaiono bambini e palloncini (questi ultimi come idea volatile di purezza).
Provvisto di vivace intelligenza, Michieletto riesce a elaborare belle scene. Punta su enormi teli di plastica trasparente, in cui poi avvolge i personaggi dei trapassati (Banco, l’assassinata famiglia di Macduff, la Lady…). Efficace la soluzione del banchetto, con la corona che passa di capo e l’altalena al posto del trono.
Ma la fatica, per seguire tutte le elucubrazioni del percorso, è improba. Troppo abusati gli ossessivi svolazzi della plastica. Infine, un macro errore: da sempre, le grandi arie vanno cantate a palcoscenico immobile se non deserto. Intromettere nella scena del sonnambulismo tre bambine vestite di rosso (unica macchia di colore di tutta l’opera) che offrono dei peluche alla Lady (sempre riferimento alla figlia perduta) è una libertà sfrontata.
Mettiamola così: pur convinta estimatrice di Michieletto, non ho apprezzato esageratamente questo suo Macbeth.
Lo spettacolo funziona meglio dal lato musicale, anche se Chung, grande direttore, ha impresso all’orchestra della Fenice una passionalità irruente. Dice Chung: “La smania di potere è una droga terribilmente radicata nell’uomo. Come sempre, la musica riesce a far passare un determinato messaggio a livello più alto rispetto alle sole parole”. Livello che non deve però sprecare le sottili mutazioni di spessore e colorito (e qui Verdi non le lesina).
Macbeth è personaggio grandioso. Luca Salsi è oggi il nostro baritono di punta. Voce vigorosa, sicura. Persino troppo, perché Macbeth è eroe dolente, incerto, succubo alla terribile consorte. Ma peccare per eccesso è preferibile del contrario. La Lady, chiamata in extremis a sostituire Tatjana Serjan, è la coreana Vittoria Yeo, che ha voce acuta, fredda e limpida. Se scevra di spietatezza, si deve riconoscerle filati di assoluta trasparenza. Un bel basso è Simon Lim (Banco), svettante a dovere il Macduff di Stefano Secco. Ottima la prova del coro.
L’esito era scontato: applausi con qualche dissenso al cast e tremendi buu alla regia.
Si replica: domenica 25 novembre, martedì 27, giovedì 29, sabato 1 dicembre.