Manuel, diciotto anni e il peso della vita sulle spalle. Storia di un ragazzo di periferia. Fra realismo e voglia di tenerezza

(di Patrizia Pedrazzini) Ci vogliono anni per diventare grandi. Anni e anni di tentativi, di errori, di delusioni, di cadute, di fatica, di dolore. E, soprattutto, di testa. C’è chi non ci riesce in una vita intera. A Manuel viene concessa una manciata di giorni: prendere o lasciare, farcela o mandare tutto a quel paese. Perché Manuel non è uno di quei ragazzi fortunati e con le spalle coperte cui la vita ha regalato il privilegio di studiare, di costruirsi passo dopo passo un futuro, di far conto su una famiglia solida sempre pronta a dare una mano. Manuel, il giorno in cui compie 18 anni, non dà una festa, ma comunque non riesce a dormire solo all’idea, perché il giorno del suo diciottesimo compleanno è anche quello nel quale si aprono, per lui, le porte dell’Istituto per minori privi di sostegno familiare nel quale ha trascorso l’adolescenza.
Il giorno nel quale, per la prima volta dopo anni, assapora il gusto della libertà. Soltanto che a casa, un modesto appartamento in un casermone sul lungomare laziale, nessuno lo aspetta: solo disordine, sporcizia, solitudine. E un impegno: prendersi cura della madre, da cinque anni in carcere, e alla quale, forse, verranno concessi gli arresti domiciliari a patto che lui, Manuel, garantisca di prenderla in carico. Un impegno che il ragazzo è fermamente deciso, dentro di sé, ad assumersi. Ma riuscirà ad attuarlo? Perché è vero che, grande e grosso com’è, dimostra molto più della sua età, è vero che è buono, generoso e prudente, e che in Istituto ha imparato a rispettare le regole, oltre che a lavare i piatti, a fare le pulizie, a prendersi cura dei più piccoli. Ma sempre diciotto anni ha. E, forse, a un po’ di libertà avrebbe anche diritto.
Primo lungometraggio del fotografo e documentarista Dario Albertini (e naturale prosecuzione de “La Repubblica dei Ragazzi”, documentario sulla nascita dell’autogoverno in una comunità per giovani), “Manuel” è un film realistico e delicato insieme, ambientato in una periferia marittima e disincantata che fin da subito assurge al ruolo, se non di protagonista, di “personaggio” imprescindibile per lo sviluppo della storia. La quale a sua volta si apre su figure umane semplici e in buona fede, che magari nella vita hanno sbagliato, ma che si sforzano di ragionare sui propri errori. E che si muovono, senza mai però avvicinarsi più di tanto, intorno a Manuel (un bravissimo Andrea Lattanzi), gigante timido e buono, sorta di Garrone del buon vecchio libro “Cuore” trasportato ai giorni nostri, e alla madre Veronica (Francesca Antonelli), donna dalla bellezza segnata e sfiorita (pertinente e curato il dettaglio dello smalto delle unghie rovinato), insicura, instabile, destinata a dare del filo da torcere a quel figlio che pur tanto ama (“Sono uno schifo di madre. Sei dovuto crescere da solo. Mi spiace essere un peso per te”).
Il tutto senza sentimentalismi né bigottismi, ma anche senza vuoti anticlericalismi (la conduzione religiosa dell’Istituto emerge semplicemente quale supporto solido e positivo per la vita dei ragazzi), sullo sfondo di un paesaggio semiurbano che non a caso non viene precisato (Ostia? Civitavecchia?), in quanto di per sé universale. Come la figura di Manuel. Come le “tentazioni” che provano ad attrarlo (il sesso, la droga, i soldi). Come il suo desiderio di libertà, e la voglia di fuggire via, lontano da scelte più grandi di lui.
Un film asciutto e pudico, dedicato a tutti i Manuel di tutte le periferie, quelli che, nella vita, “devono fa’ er doppio della fatica, anche er triplo”.
Bella, per tenerezza e discrezione, la scena nella quale, per andare all’incontro con la madre in tribunale, il ragazzo decide di vestirsi elegante e, in piedi davanti al piccolo specchio del bagno, cellulare impostato sulle relative istruzioni, prova e riprova i passaggi per farsi il nodo della cravatta.