(di Marisa Marzelli) Quello del cinema per un pubblico anziano e interpretato da famosi attori nel pieno della terza età è un filone (denominato grey pound) che l’industria internazionale sta cavalcando. Persino Dustin Hoffman ha debuttato come regista a 75 anni con Quartet (2012) ambientato in una casa di riposo per cantanti e musicisti in pensione.
Dopo l’imprevisto successo della pellicola inglese Marigold Hotel (2012) che, costato dieci milioni di dollari ne ha incassati nel mondo 136, era inevitabile la tentazione di un sequel. Fedele al motto “squadra che vince non si cambia”, anzi si rafforza. Così, ecco di nuovo alla regia John Madden (Oscar per la regia di Shakespeare in Love) e l’incredibile cast comprendente il meglio degli attori britannici in età da pensione: da Judi Dench a Maggie Smith (entrambe indomite ottantenni), Bill Nighy, Ronald Pickup, Penelope Wilton, Celia Imrie. Con l’aggiunta di un’altra pantera grigia di immutato fascino: Richard Gere. Eh sì, perché stavolta si apre a una star americana.
Per chi non sapesse come è cominciata la storia, nel primo capitolo un gruppetto di pensionati inglesi rimasti soli o alle prese con difficoltà economiche decide, visionata un’allettante pubblicità su internet, di trascorrere l’ultima stagione della vita in un grand hotel in India. Giunti sul posto, però, gli arzilli vecchietti si rendono conto che la costruzione è in rovina e il giovane direttore locale Sonny (Dev Patel, diventato famoso come protagonista di The Millionaire) un gran pasticcione. Ma niente paura, l’acida Muriel (Maggie Smith) lo affiancherà nella direzione e così l’albergo rifiorisce. Il film era molto equilibrato nel raccontare come persone ormai tagliate fuori dalla vita attiva riprendessero vigore e speranze e acuto nel mettere a confronto inglesi più o meno spocchiosi con i propri pregiudizi “sulle colonie”.
Questo Ritorno al Marigold Hotel rilancia. La fatiscente struttura si è trasformata in un residence per anziani, dove la mattina si fa l’appello (per essere sicuri che nessuno sia morto nella notte) e l’esuberante direttore vuole espandere l’attività, aprendo un secondo albergo. Però c’è bisogno di un investitore e così lui e Maggie Smith volano negli Stati Uniti per trovare i capitali. Il finanziatore è disponibile, ma manderà in incognito un “ispettore” per verificare il livello di confort dell’albergo. Intanto gli ospiti originali del Marigold continuano la vita abituale: Julie Dench fa l’intermediaria per l’acquisto di stoffe e non si decide ad accettare le timide avances di Bill Nighy, Celia Imrie è sempre in caccia di un marito benestante, Ronald Pickup è tentato dal tradimento sentimentale. Finché arriva un nuovo cliente (Richard Gere), che si spaccia per scrittore; ma Sonny è convinto si tratti del misterioso “ispettore” e fa di tutto per ingraziarselo.
Nel frattempo, Sonny sta per sposare la ragazza della sua vita e il film raggiunge l’apoteosi nella festa di nozze. Del resto si sa che i matrimoni indiani (almeno al cinema) sono quanto mai colorati, gioiosi, farciti di canti e balli. Insomma, c’è spazio per un’incursione in pieno stile Bollywood.
Persa l’originale freschezza del primo Marigold Hotel, il sequel si destreggia tra la commedia sentimentale (gli attempati protagonisti hanno diritto a nuove occasioni, senza diventare ridicoli), qualche tocco di malinconia per la consapevolezza della brevità della vita e la caotica vitalità di un quasi continente come l’India, dove anche gli stanchi europei traggono nuova linfa.
In gran forma il cast di nomi eccellenti del teatro e del cinema britannici, tutti riuniti in un racconto corale che cerca di equilibrare gli spazi riservati ad ognuno. La classe è lì da vedere, anche se loro sembrano divertirsi e nemmeno impegnarsi troppo, tanto non hanno proprio niente da dover ancora dimostrare. Ed è un infuso di energia per tutti gli spettatori in là con gli anni vedere la grinta e l’eleganza di Julie Dench, le raffinate punture di spillo di Maggie Smith, il sornione understatement di Bill Nighy e Ronald Pickup. Anche Richard Gere interpreta con autoironia il ruolo di perenne e quasi controvoglia tombeur de femmes, nonostante i capelli imbiancati. Forever American gigolò.