Miracolo a Verona: I Rusteghi di Goldoni al Teatro Romano, fedeli al testo, senza stravolgimenti. Eppure, un successo!

I Rusteghi - Foto Serena PeaVERONA, venerdì 10 luglio  ● 
(di Paolo A. Paganini) A Teatro si può essere straordinariamente felici o disperatamente tristi. Con tutte le sfumature del grigio. Al Teatro Romano, dov’è andata in scena, in prima nazionale, la commedia di Goldoni “I rusteghi”, è esplosa la santabarbara della felicità teatrale. Cos’è successo? Diciamolo in due parole. Con una piccola divagazione. In un’epoca che vede spesso uno scriteriato antagonismo tra regista e autore, con il pretesto d’un aggiornamento, d’una attualizzazione, d’un adeguamento a un malinteso senso di modernità, si pretende di sancire il “diritto” del regista a una personale creatività, del tutto arbitraria, che spesso si riduce a eccentrici stravolgimenti. Poi, il regista, compiaciuto, sembra che voglia dire: “Visto che bravo?”. Salvo incavolarsi a qualche critica non allineata. In genere, il pubblico lo applaude credendo di aver visto Shakespeare o Goldoni. E viene invece diseducato alla conoscenza di Shakespeare o di Goldoni.
Torniamo al Teatro Romano di Verona.
“I rusteghi”, scritti nel 1760, quando già Goldoni guardava all’Illuminismo e all”amico” Voltaire, sono di una straordinaria, incredibile modernità. Si dibatte addirittura, in embrione, della dignità ed eguaglianza della donna, criticandone qualche sobbalzo d’indipendenza (In suma, o co le bone, o co le cattive, le fa tutto quel che le vol…), si parla del rapporto genitori e figli, si discute di autorità e dispotismo, si denuncia ironicamente la libertà come fonte di ogni disordine. Basta. Per dire soltanto di quale lungimirante visione oltre gli orizzonti del suo tempo andasse l’occhio di Goldoni con questi “Rusteghi”.
E, tuttavia, ciò è addirittura secondario rispetto alla sua fulgida e spregiudicata bellezza letteraria e drammaturgica, ch’è anche un apologo in difesa del teatro contro la malmostosa tirchieria dei nostri quattro “selvadeghi” goldoniani, ottusi, autoritari, depositari d’un diritto che nasce da un indiscutibile e autoritario “son paròn mi“, che spiega tutto senza spiegare niente.
Ma veniamo alla mess’in scena ad opera dello Stabile del Veneto, Teatro nazionale, con la regia di Giuseppe Emiliani, che, udite udite, non stravolge niente, non cambia niente, non crea niente, ma si attiene al testo, rispettando la natura dei personaggi, in un lavoro di limpida e onesta interpretazione dell’originale, privilegiando l’autore, e ancor più rispettando il pubblico, il suo pubblico veneto, che gli ha tributato un’apotesi di applausi e di risate.
Ma, ancora, dove sta la straordinarietà dell’operazione?
In poco più di due ore con un intervallo (con la regia di Massimo Castri, nel ’92, al Teatro Nazionale di Milano, cominciava alle 21.10 e terminava a mezzanotte e venti; e anche nell’edizione del 2003 firmata da Francesco Macedonio i tempi non si discostavano troppo), Emiliani ha concepito l’allestimento come un concertato ora a due voci, ora a tre, ora tutt’insieme, quasi come in un’opera buffa o, se preferite, come in uno scatenato cabaret, in una irresistibile successione di battute fulminanti, che non danno tregua. E tutto con le parole, lo spirito e le intenzioni di Goldoni, senza nulla togliere o aggiungere (ma con una “birichinata” finale del regista). Semmai, l’originalità di Emiliani riguarda proprio i tempi, sempre larghi nel dialetto veneto, così propenso al ragionamento filosofico, all’indugiare in pause d’effetto. E qui invece no. Il pubblico non fa in tempo a tirare il fiato, che subito è travolto da altre bordate di goduriose risate. Non si salva nessuno, grazie, però e soprattutto, a un eccezionale staff attoriale.
Il “rustego” Lunardo, occhiuto inesorabile “custode” delle virtù delle due giovani donne di casa, la figlia di primo letto (l’ottima Margherita Mannino) e la moglie sposata in seconde nozze (Cecilia La Monaca), è interpretato da uno strepitoso Giancarlo Previati. Il rustego Maurizio, vedovo e inflessibile padre di Filippeto (Francesco Wolf) è un convincente Alberto Fasoli. Il rustego Simon (Piergiorgio Fasolo) e Marina (Maria Grazia Mandruzzato), sono marito e moglie sempre l’un contro l’altra armati “Se el me dise tantin, mi ghe respondo tanton”. Il rustego Canciano (Alessandro Albertin) e Felice (Stefania Felicioli, alter ego in gonnella del pensiero di Goldoni) sono, tutto sommato, la coppia più civile, anche perché il rapporto marito/moglie tende a rovesciarsi sul ponte di comando. Michele Maccagno, infine, nel ruolo del Conte Riccardo, è qui un’altra bella invenzione di Goldoni, quasi anticipando i futuri tormentoni dei nostrani varietà. Almeno un cenno alla funzionale scenografia di Federico Cautero e ai costumi di Stefano Nicolao.

“I rusteghi” di Carlo Goldoni, Compagnia Teatro Stabile del Veneto, regia di Giuseppe Emiliani. Al Teatro Romano di Verona. Repliche fino a martedì 14 giugno.
Il prossimo anno, per ora, si conoscono le seguenti date:3-7 febbraio: Teatro Goldoni, Venezia – 10-14 febbraio: Teatro Verdi, Padova – 17-21 febbraio: Teatro Politeama Rossetti, Trieste – 23 febbraio: Teatro Fabbri, Vignola – 25-28 febbraio: Teatro Bonci, Cesena – 3-6 marzo: Teatro Metastasio, Prato – 9-13 marzo: Teatro Sociale, Brescia