“Misericordia”. Quando il degrado e la violenza non riescono a uccidere la pietà. In una Sicilia arcaica di sangue e poesia

(di Patrizia Pedrazzini) Tre povere baracche si stagliano, tra fango e rottami, in riva a un mare di Sicilia tanto vicino, quanto estraneo e impietoso: c’è, ma è come se non ci fosse. Un piccolo “villaggio” che sa di miseria e di disperazione, di degrado e di violenza, di ignoranza e di tanta, tanta sofferenza. Non detta, non gridata, ma vissuta giorno dopo giorno, fino a essere divenuta parte del corpo e dell’anima di chi la subisce. Decide di nascere qui, fra le pietre di una montagna a picco sulla spiaggia, scossa a tratti da frane, il piccolo Arturo. E piange, nudo fra i sassi, mentre la ragazza che lo ha messo al mondo, una giovane prostituta che lavora nelle baracche, viene ammazzata a botte dal suo magnaccia, che è anche il padre del bambino. Solo una capra gli si avvicina, quasi misericordiosa, lo annusa, gli lecca i piedini, mentre il corpo della povera madre affonda nel mare.
Incomincia così, con un pugno nello stomaco, “Misericordia”, l’ultimo film di Emma Dante, tratto dall’omonimo spettacolo teatrale della stessa regista. E così prosegue, per quasi 95 minuti di pellicola, con la sola eccezione del finale, inatteso e liberatorio.
Perché il piccolo Arturo non verrà abbandonato: ci penseranno le due amiche di sua madre, Betta e Nuccia, prostitute come lei (cui se ne aggiungerà una terza, Anna), a crescerlo. Accudendolo, amandolo, difendendolo contro tutto e tutti. Puttane svogliate all’occorrenza, madri amorevoli sempre, erinni arcaiche quando lo sporco magnaccia metterà gli occhi anche sul ragazzo, minacciandone l’esistenza e il futuro. Perché va bene tutto, ma le mani, sul loro figlio, quello schifoso non le deve allungare.
E poco importa che Arturo sia cresciuto – ormai è un giovane uomo – con pesanti problemi, fisici e mentali: cammina male, quasi saltellando, si diverte a girare su se stesso, volteggiando come un derviscio rotante, non parla, ragiona a malapena, ha bisogno di tutto. Dal momento che è proprio qui, in questo miserevole “villaggio” chiuso fra terra e mare, che abita, ed emerge, quel nobile sentimento di compassione per l’infelicità altrui che va sotto il nome di misericordia.
In un racconto, a metà fra teatro e cinema (con qualche strizzata d’occhio al Neorealismo), fatto di carne e di sangue, di corpi sfatti, di nudità dolenti, tuttavia mai volgari, semmai fragili, ammaccati, schiacciati nella morsa di un’umanità disgraziata che porta comunque sempre con sé qualcosa di ancestrale. E all’interno della quale Arturo, figlio innocente della violenza, e le sue madri emergono come i soli esseri veramente destinati a salvarsi, forti del loro candore e della loro innocenza. Nonostante il marciume nel quale la vita li ha calati.
Il tutto nell’ambito di un contesto, anche e soprattutto estetico, fatto di violenza maschile e di rassegnazione femminile, ma anche di riscatto attraverso l’istinto della maternità, a sua volta associato alla coabitazione con gli animali – le capre in questo caso – e alla purezza che li contraddistingue. A differenza dell’uomo.
Una sola perplessità. “Avrai”, di Claudio Baglioni, il brano sul quale corrono le ultime sequenze del film, è una canzone non bella, di più. Capace come poche di trasmettere commozione, forza e speranza. Lo “stacco” fra le sue note e il resto della pellicola è di grande impatto, e indubbiamente forte. Tuttavia è come se, per assurdo, il suo essere estremamente poetica togliesse poesia alla storia, quella vera, quasi smussando i contorni del dramma per trasformarlo in una sorta di fantasia mitica, se non di favola arcaica. Universale, certo. Ma illusoria.